Si discute di etica, di moralità, ed anche del rapporto tra queste due parole e la politica. Se ne parla ovunque, persino nelle chiacchiere tra amici (segno che il tema è diventato “il problema” del Paese) soprattutto dopo che è venuta clamorosamente allo scoperto l’impresentabilità morale della figura del Presidente del Consiglio. La qualità del rapporto tra comportamento personale e ruolo istituzionale sta diventando elemento tanto pesante da ricacciare in secondo piano il giudizio sul fallimento delle politiche praticate dal suo governo.
Da qualche tempo alcuni intellettuali hanno cominciato a porsi delle domande sui motivi che hanno visto questo Paese precipitare da momenti alti - che hanno visto un popolo sostanzialmente unito pur nelle differenti convinzioni politiche, impegnarsi generosamente e disinteressatamente nella ricostruzione materiale dopo la fine di una guerra rovinosa, oltre che nel recupero della stima del mondo - all’attuale avvilente situazione.
Leggo tentativi di ricerca delle cause, anche lontane, di questo scivolamento al quale nessuna forza è stata in grado di opporsi ed anzi ha incontrato benevolenza, entusiastici consensi, tutt’al più deboli critiche come se il fascino delle presunte nuove istanze di modernità fossero riuscite ad incantare anche chi avrebbe dovuto possedere strumenti sufficienti per valutarle criticamente – qualche critica, più forte, è rimasta isolata.
Per cercare di capire, si è risaliti al carattere e alla storia degli italiani, alle cause profonde.
Penso che le persone della mia età, che hanno vissuto la guerra, la Resistenza, il periodo successivo segnato dagli sforzi immani compiuti per rimettere in piedi il Paese, non possono evitare di iscrivere almeno due motivi nell’elenco delle cause dell’attuale degrado,
Negli italiani c’è stata (forse sta riemergendo?) una forte capacità di indignarsi. Alla mia generazione è stata rivelata dalla catastrofe dell’ 8 settembre. Dalla reazione dei ragazzi che nelle caserme, abbandonati senza ordini dai comandi militari, primo fra tutti il capo supremo delle forze armate sua maestà il re Vittorio Emanuele III, spaventati ma soprattutto disgustati dal comportamento di chi avrebbe avuto il dovere di guidarli, hanno deciso di non consegnarsi ai tedeschi e di salire in montagna con le loro poche armi, senza avere ancora idee chiare su cosa avrebbero potuto fare e come, ma con un’idea precisa in testa: bisognava opporsi, reagire. La loro è stata una scelta morale.
E’ stata una scelta morale quella fatta da chi ha lasciato la casa di città, quel minimo di sicurezza che offriva pur sotto i bombardamenti e la cupa occupazione nazista, ed ha preso la strada della montagna. Capire dove stava il bene e il giusto è stato semplice per chi non aveva perduto o aveva ritrovato, davanti alla gravità degli avvenimenti, la capacità di indignarsi, di superare le domande sul prezzo che avrebbe dovuto personalmente pagare per quella decisione. Magari, al momento della scelta, non erano chiarissimi il sentimento dell’obbligo di assumersi responsabilità verso il Paese, né l’ ansia di riscattare una dignità e un rispetto perduti di fronte al mondo. Ancor meno chiara era la percezione che ognuno stava decidendo di schierarsi su un fronte della politica, ma di questo si trattava stante che la Resistenza avrebbe modificato l’esito della guerra, il giudizio sul nostro Paese e la posizione che l’Italia avrebbe avuto nel mondo.
Dunque in quel momento ciascuno si è trovato di fronte a una decisione strettamente personale, dalla quale dipendeva la sua vita, ed era allo stesso tempo morale e politica. Qualcuno si è nascosto, qualcun altro ha preferito consegnarsi ai tedeschi sperando di salvarsi la vita, chi possedeva abbastanza stima di sé e senso morale ha scelto la Resistenza.
Perché quella prima scelta potesse confermarsi e consolidarsi, è stata necessaria la presenza di uomini dotati di esperienza militare o politica, o tutt’e due, che si costituisse in qualche modo come classe dirigente, nel senso di sapere organizzare, governare, indirizzare, motivare le ragioni stesse di quel movimento in gran parte spontaneo.
Il Paese uscito da quei venti mesi, insieme alla gioia per la pace ritrovata e l’urgenza di partecipare alla costruzione di un mondo più giusto, portava in sé l’eredità di quelle norme di comportamento. La nuova classe dirigente era composta da uomini che certamente avevano idee politiche anche assai distanti tra loro, ma tutti erano egualmente convinti di alcuni principi e comportamenti; troppo noti per essere ricordati. E a parte i principi di fondo, che si possono riassumere nella fedeltà alla Costituzione, mi sembra giusto sottolineare il profondo disinteresse personale, l’ambizione di fare l’interesse del Paese sopra ogni altra cosa, l’ignoranza del privilegio. E molte altre cose di questo genere. Li incontravi per strada, qualcuno anche in autobus, vestiti decorosamente, quasi poveramente. Tutto il loro tempo e i loro pensieri erano chiaramente, interamente assorbiti dai terribili problemi lasciati dalla guerra. Sicuramente nessuno di loro ha mai trascorso una serata in una balera, che erano le popolari discoteche di allora.
Tempi lontani? Questione dei tremendi impegni che la ricostruzione poneva? Certo anche questo. Aggiungerei magari anche l’abitudine alle privazioni e alla sobrietà imposti dalla clandestinità dalla quale i più pervenivano. Ma alla base di tutto c’era l’idea della politica come servizio. Questo era il punto: che ha improntato di sé almeno due generazioni. La perdita di questo spirito che accomunava classe dirigente e popolo è il problema di oggi.
Sono stata una di quei funzionari del partito comunista dei quali si è detto tutto il male possibile. Una di quelli chiamati spregiativamente “professionisti della politica”. Oggi c’è forse una parte di verità in questa definizione, spesso ci si iscrive a una carriera più che a un partito e questo fa parte del degrado. Ma, riguardo agli anni in cui si imparava la politica, posso testimoniare che la spinta a impegnarsi totalmente era tutt’altra cosa. I funzionari erano operai che potevano permettersi di fare quella scelta perché c’era una moglie che lavorava e garantiva il mantenimento della famiglia. Erano ragazzi, studenti che potevano contare sui genitori. Lo stipendio del partito, equiparato al salario di un operaio di non ricordo quale categoria, spesso non pagato, era irrisorio.
La coscienza di essere al servizio della politica e di dovere costantemente dimostrarlo a chi ti seguiva era talmente forte da rasentare l’eccesso. Fu certamente eccessivamente austero il comportamento di mio padre che, nominato alla Liberazione direttore nella fabbrica dove aveva lavorato come operaio collaudatore, licenziato per ordine della Fiat che considerava finito il tempo dei direttori politici , distribuì la liquidazione, lauta per quei tempi, tra Camera del Lavoro, partito, ANPI , associazioni varie, trattenendo neppure una lira per sé. Oggi dico “eccessivo”, allora una tale decisione veniva considerata del tutto normale. Che io ricordi, non si facevano dibattiti sull’etica, l’etica semplicemente si praticava.
Quando, come e perché tra un simile spirito di servizio e l’oggi si spalancò un tale baratro? Cos’è accaduto perché il senso della politica venisse rovesciato e trasformato in qualcosa del quale servirsi per raggiungere privilegi, posti, carriere?
Certo lo scivolamento non fu improvviso, ma fu tutto sommato abbastanza veloce. Ho nella memoria due momenti e una parola, dai quali faccio discendere la consapevolezza che qualcosa di profondo stava cambiando e il mondo che stava arrivando non era più il mio. A quel mondo ero estranea. La parola è “moralismo”. Erano i primi anni Ottanta e, nel luogo in cui lavoravo, una persona della quale avevo grandissima stima a una mia osservazione rispose “questo è moralismo!” La parola diventò in breve il leitmotiv che mi sentii rinfacciare ogni qualvolta esprimevo indignazione per questo o quel comportamento. Stavano arrivando gli anni della Milano da bere e la parola d’ordine era “arricchitevi”, il come non era questione di cui occuparsi.
Erano anni confusi, dove si mescolavano molte idee anche contraddittorie ma forse non tanto. Il figlio della persona che rivelò il mio moralismo, apparteneva ai gruppi che praticavano la “spesa proletaria”. Mi venne data una spiegazione: noi eravamo la generazione dei doveri, loro quella dei diritti.
Direi che, fatte salve tutte le opinioni sul carattere degli italiani, sulla storia di questo Paese, sulla nascita traumatica dell’Italia unita (alla quale, mi permetto di osservare, poté tuttavia seguire un periodo come quello della Resistenza e della ricostruzione, quando la generosità e il sentimento del bene comune ebbero nuovamente la meglio) un decennio come quello che ho ricordato non è da sottovalutare. Secondo me lo slittamento cominciò o ebbe comunque un’accelerazione in quegli anni. Purtroppo l’accelerazione si è sviluppata anche in ampiezza avvelenando una parte grande di questo Paese. Tanto grande e tanto profondamente che la domanda adesso è: quante generazioni saranno necessarie perché cominci a rifiorire una civiltà dei sentimenti e dei comportamenti che riporti l’Italia alla grande cultura di cui è stata pure portatrice?
Marisa Ombra
Vice Presidente Nazionale dell’ANPI
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