Pagine della resistenza caratese
A cura di Luigi Colombo
Con il patrocinio del Comitato Unitario Antifascista
e della Amministrazione Comunale di Carate Brianza
PRESENTAZIONE
Tra le varie iniziative che il Comitato Comunale Antifascista ha predisposto per celebrare il trentennale della Resistenza e della Liberazione, la pubblicazione di queste note sulla Resistenza Caratese ha indubbiamente il primo posto.
All’amico Luigi Colombo che ne è stato l’ideatore e si è assunto il notevole impegno di raccogliere testimonianze e documenti atti a ricostruire alcune delle più gloriose giornate della lotta di liberazione, va il plauso ed il riconoscimento nostro e di tutti coloro che apprezzeranno queste pagine.
La viva cronaca sui martiri caratesi fucilati a Pessano, sul componente il CLN di Carate deportato e lasciato morire in un campo di concentramento tedesco, sull’attività dei nuclei partigiani operanti in Brianza vuole essere un ricordo, una testimonianza che serva soprattutto alle nuove generazioni per arricchire ed approfondire i grandi valori della Resistenza.
Queste pagine rappresentano la negazione e la condanna del nazi-fascismo con tutte le sue degradazioni. Intendono poi essere un monito ad operare nella concordia, ad eliminare la prepotenza come metodo di vita e l’egoismo che ci fa dimenticare il comune destino degli uomini.
Solo così il nostro impegno sarà valido per la costruzione di una società meno imperfetta, più giusta, quale gli uomini della Resistenza hanno sperato.
Il Sindaco
ERNESTO CAZZANIGA
AI LETTORI
L’estensore del presente volumetto, «Pagine della Resistenza caratese», Luigi Colombo, detto «Meazza», fu protagonista e testimone diretto, negli anni decisivi della guerra, di molti avvenimenti della Resistenza. Antifascista, militante del PCI, medaglia di bronzo al valor civile, arrestato dai fascisti per renitenza di leva, fu imprigionato nella Rocca di Caterina Sforza di Imola.
Sfuggito miracolosamente alle feroci rappresaglie tedesche, dopo mesi di durissima prigionia, raggiunse con mezzi di fortuna la Brianza e fu a Carate, in tempo per veder nascere e svilupparsi la guerriglia partigiana.
Legato da viva amicizia a Claudio Cesana e a molti dei patrioti caratesi ha conservato intatti, in tutti questi anni, lo spirito e la generosità di ideali e di sentimenti della generazione che ha riscattato l’Italia dal nazi-fascismo.
La sua testimonianza, tanto più preziosa perché partecipe e sofferta, fa rivivere dinnanzi ai nostri occhi con commossa semplicità le figure e gli episodi più significativi della lotta partigiana in una rievocazione serrata e toccante, che lascia una traccia profonda di commozione nell’animo del lettore.
Luisa Auciello
INTRODUZIONE
Il presente scritto, dedicato alla Resistenza Caratese, vuole illustrare, con brevi ma commosse pagine rievocative, il contributo dato alla Resistenza Italiana, di cui si celebra quest’anno il trentennale, dalla 119a (orig. 119.ma NdR) Brigata SAP DIVONA che opera attivamente e instancabilmente nel periodo 43 - 45, in Carate e nel territorio circostante.
In tale rievocazione si colloca, come l’episodio più luminoso e significativo da affidare al ricordo delle nuove generazioni, il sacrificio dei sette Martiri di Pessano, tra cui ritroviamo tre giovani cittadini caratesi, morti per aver scelto, con piena e assoluta dedizione, la difesa degli ideali di libertà e di giustizia in uno dei momenti più tragici e oscuri della nostra storia.
Il compito di raccogliere i documenti e le informazioni e di ascoltare e integrare fra loro le diverse testimonianze sui fatti narrati è stato lungo e difficile ed ha richiesto un lavoro minuzioso e paziente di ricerca poiché molti dei protagonisti e alcuni dei testimoni più importanti di questi eventi hanno perso la vita sotto il piombo fascista o nei campi di concentramento tedeschi o in seguito ad altre cause negli anni seguenti la Liberazione.
La scarsità di documentazione deriva anche dalla necessità di segretezza e di silenzio con cui si dovettero circondare le azioni e le responsabilità di quanti collaborarono al movimento di liberazione; segretezza indispensabile per impedire alle brigate nere di spezzare le reni ai gruppi partigiani.
Chiediamo pertanto scusa per quanto risulti involontariamente omesso o scarsamente documentato (orig. documento NdR) riguardo ai fatti o alle persone.
Ringraziamo vivamente e pubblicamente, nello stesso tempo, tutti coloro che ci hanno concesso interviste, informazioni, notizie, documenti permettendoci in tal modo la maggiore fedeltà possibile nella stesura dei fatti.
Un ringraziamento particolare va agli amici delle ACLI di Pessano e a Don Baraggia di Monza, grazie ai quali abbiamo potuto ricostruire gli ultimi momenti trascorsi nel carcere di Monza e sul luogo dell’esecuzione, in Pessano stessa, da parte dei sette Martiri.
Esprimiamo altresì la nostra più viva riconoscenza alla Amministrazione Comunale e al Comitato Antifascista di Carate Brianza per la sensibilità e la consapevolezza con cui hanno patrocinato la presente pubblicazione, affinché in ogni casa entri la documentazione delle gesta compiute dai nostri partigiani che operarono, a prezzo di enormi sacrifici e della loro stessa vita, perché la nostra Comunità civica potesse essere restituita alla democrazia e alla libertà di istituzioni rinnovate.
Nel Trentennale della Liberazione, mentre assistiamo al riorganizzarsi di forze apertamente reazionarie, al pullulare di organizzazioni paramilitari che usano la politica della provocazione, della aggressione, della violenza nei confronti di organismi e di istituzioni democratiche, tentando con ogni mezzo la conquista del potere, ci sembra particolarmente significativo rievocare questi avvenimenti nella loro assoluta, talvolta cruda verità storica, al disopra di ogni passione ideologica e politica, perché, con il loro valore di ammonimento attuale, suscitino una profonda risonanza nella coscienza di ognuno di noi e soprattutto dei giovani, a cui è affidata la conservazione e la piena attuazione dei valori contenuti nella Costituzione.
Il testamento ideale lasciatoci dai protagonisti della Liberazione non sarà tradito se troverà piena attuazione nello spirito di unità con cui, a somiglianza di trent’anni fa, sapremo fronteggiare e impedire il manifestarsi di un risorgente pericolo fascista.
Con questo preciso intendimento di mobilitazione ideale di quanti vivono civilmente e responsabilmente le vicende del nostro Paese, le note di questo libretto si rivolgono ai cittadini caratesi, perché custodiscano e alimentino la fede nei valori che hanno consacrato la storia di ogni comunità civile, libera, democratica.
CAPITOLO PRIMO
LA RESISTENZA CARATESE
L’unità di intenti e di ideali con cui operò il movimento della Resistenza accelerò nel tempo la conclusione della guerra e il momento della Liberazione.
Appare sempre più chiaro infatti che la Resistenza realizzò tali obiettivi proprio in virtù di questa prerogativa: essa non fu monopolio di un solo partito o di una classe sociale; fu un fatto storico di unità nazionale in cui i partiti e la popolazione tutta svolsero un ruolo determinante per il conseguimento della vittoria.
Ricostruire oggi tale unità è la premessa indispensabile per combattere il risorgere del fascismo.
Questo è il preciso insegnamento che ci viene dalla lotta partigiana, sofferta, combattuta e vinta grazie all’azione concorde e alla volontà comune dei suoi protagonisti.
Il ricordo dei Martiri caratesi, comunisti, socialisti, cattolici, azionisti ci insegna che assieme si combatte il fascismo e lo si combatte nello spirito della Costituzione.
Nella primavera di trent’anni fa, alla vigilia dell’insurrezione popolare del 25 Aprile 1945, la Resistenza caratese perdeva uomini e ragazzi di grande valore, impegnati in una lotta coraggiosa e instancabile.
A Pessano, trucidati, dal piombo nazi-fascista, cadevano sette giovani partigiani: Alberto Gabellini di anni 28, Mario Vago di anni 21, Romeo Cerizza di anni 21, Angelo Barzago di anni 20, Dante Cesana di anni 25, Claudio Cesana di anni 20, Angelo Viganò di anni 25.
Gli ultimi tre erano cittadini caratesi.
Ai loro nomi se ne affiancano altri, non meno degni del nostro reverente e commosso ricordo. Sono quelli di Augusto Cesana, pure di Carate, morto nel campo di concentramento per detenuti politici di Flossemburg, in Germania; di Andrea Ronchi, di Agliate, fucilato a Introbbio; di Sergio Devani, di Milano, medaglia d’argento al valor militare, sfollato a Verano e fucilato a Cambiago; di Luigi Cesana, di Verano, morto a Vercelli in seguito alle gravi ferite riportate in un’azione partigiana; di Mario Preda, anch’egli di Verano, affettuosamente soprannominato dai suoi compagni di guerriglia «Topolino»e caduto eroicamente a soli 15 anni.
Rievocando alcuni momenti ed episodi della loro vita, intendiamo, nelle pagine successive, ricostruire la personalità semplice e modesta, la dirittura morale, gli affetti familiari di questi uomini che, nel momento decisivo della lotta, scelsero senza tentennamenti la strada della clandestinità non per spirito d’avventura ma per un dovere verso se stessi, verso i loro cari e per l’amore per il loro Paese.
La Resistenza caratese non fu un fatto puramente locale ma si propagò e si estese oltre il territorio della Brianza; non si fermò in pianura ma proseguì in montagna e contribuì ad ingrossare le file dei partigiani di Cino Moscatelli, di Filippo Beltrami, di Gianni Citterio («Redi») e di tanti altri valorosi comandanti.
Basterà qui ricordare, tra gli altri, i nomi di: Giuseppe Giussani, Achille Villa, Eliseo Villa, Antonio Colombo («Ermanno»), Pietro Vertemati, Carlo Calare, Giovanni Motta, Ambrogio Beretta, Gianni Merlini, Gerolamo e Angelo Preda fratelli di «Topolino»- , che combatterono tutti tenacemente in formazioni partigiane diverse e portano ancora oggi i segni delle ferite e dei patimenti affrontati in montagna, in un inverno impietosamente rigido e tremendo, durante il quale contribuirono a realizzare la «Libera Repubblica dell’Ossola» o imbracciarono un’arma per combattere su altre montagne dell’arco alpino.
A questi uomini, a questi giovani nostri concittadini, vanno affiancate nel ricordo le donne caratesi che diedero il loro generoso contributo in diverse attività, là dove la lotta clandestina lo richiedeva.
Rievochiamo le figure di Maria Zimbaldi, moglie del confinato politico e comandante partigiano Angelo Nobili («Giulio»), staffetta partigiana che teneva i contatti con il centro operativo di Milano. Perseguitata, incarcerata e seviziata a Dervio prima e a San Vittore poi, seppe tener testa con grande coraggio e forza morale agli sbirri neri finché, aiutata dal partigiano Tranquillo Annoni, poté raggiungere il marito che si trovava alla macchia a Rogolo nella Val Masino.
Altrettanto degna di ricordo è Giuseppina Cesana («Pina»), sorella di Dante Cesana, anch’essa instancabile staffetta net mantenere i collegamenti con il centro operativo di Desio e nel portare i messaggi del fratello ai singoli partigiani della zona.
Assai nota all’interno delle organizzazioni partigiane fu Entide Zecca, figlia adottiva del gappista Enrico Rimessi che, nonostante fosse appena quindicenne, seppe sfidare con spavalderia e spregiudicatezza le insidie tedesche e fasciste in un continuo e rocambolesco peregrinare che le permise di procurare armi, denaro, documenti per l’espatrio (rilasciati questi ultimi dall’allora Segretario Comunale) ad ebrei o partigiani ricercati che poterono così varcare il confine o raggiungere le loro destinazioni di montagna. Indomita staffetta dei gruppi d’azione antifascisti Caratesi, Entide Zecca si assunse anche il compito di mantenere i collegamenti con le Brigate G.A.P. di Milano; i suoi incontri con Nello Malegoli, coordinatore delle Brigate e con Zanardi, del gruppo STIPEL di Milano avvenivano spesso nelle cappelle mortuarie e nei sotterranei del Cimitero Monumentale.
In questa rievocazione non può non essere menzionato il coraggioso gesto di ribellione e di denuncia compiuto da un gruppo di donne cara tesi che, dinnanzi alle scuole «G.D. Romagnosi»- allora sede del comando tedesco di stanza a Carate affrontarono il Podestà Tosi, reclamando a viva voce condizioni di vita migliori e richiedendo, nella loro qualità di moglie e di madri, la fine di una guerra portatrice di lutti e di rovine nelle loro famiglie. Il Podestà Tosi, affrontato in modo così inaspettato e tumultuoso, si spaventò a tal punto che preferì disertare i locali del Municipio e rifugiarsi a Costa Lambro, dove abitava il Ministro repubblichino Spinelli.
L’organizzazione del movimento di resistenza a Carate nacque pochi mesi dopo la data dell’8 settembre 1943 giorno dell’armistizio e appare già in piena attività nei primi mesi del 1944, quando Dante Cesana, Carlo Riva e Carlo Vergani, tornati in Italia a seguito della disfatta su subita dall’A.R.M.I.R. in Russia» di Cusano Milanino, diedero vita alla «119a Brigata Garibaldi S.A.P. Divona».
Il comando della brigata venne affidato a Dante Cesana, designato col nome di battaglia di «Marco»; commissario di brigata fu Claudio Cesana («Tito»). La brigata era inoltre composta da: Angelo Viganò, Carlo Riva («Sergio»), Carlo Vergani il popolare Pirlin ottimo centravanti della U.S. Caratese Carlettino Vismara, Tranquillo Annoni, Guido Cesana passato poi nel C.L.N. , Attilio Bestetti, Giuseppe Merli, Giuseppe Cesana, Angelo Colciago tutti operai caratesi.
La Brigata era collegata con la Divisione «Bassa Brianza»comandata da Eliseo Galliani («Andrea»), di Biassono, mentre Enrico Novati - che diverrà Sindaco della Liberazione di Desio - era il vice-commissario incaricato di mantenere il collegamento con le altre Brigate operanti in Brianza. I luoghi d’incontro dei partigiani erano stabiliti di volta in volta; più frequentemente avvenivano in prossimità del cimitero di Vergo Zoccorino, raggiunto di notte, a piedi, con grave rischio personale, in mezzo ai boschi avvolti nella nebbia, spesso tra la neve e il gelo, sfidando il coprifuoco e le pattuglie fasciste. Finita la riunione, la via del ritorno era percorsa tagliando per i prati, velocemente e col fiatone grosso, alle prime luci dell’alba, appena in tempo per prendere il tram e recarsi in fabbrica.
L’attività svolta da questi partigiani consisteva in azioni di disturbo al regime repubblichino, con lancio di materiale di propaganda nel paese e soprattutto nei locali pubblici o nei covi degli stessi brigatisti neri. Il materiale di propaganda incitava la popolazione a rivendicazioni per una vita migliore, denunciava le malefatte dei nazi-fascisti, chiedeva la immediata cessazione della guerra di aggressione in cui l’Italia si trovava coinvolta, sollecitava la preparazione di scioperi generali per affrettare la cacciata degli invasori ed il definitivo abbattimento del regime fascista.
A queste azioni di denuncia e di sabotaggio del regime parteciparono in seguito numerosi giovani di Verano Brianza, tra cui i fratelli Pizzi e Angelo Mornati che costituirono un distaccamento facente capo al gruppo caratese.
Si trattava, nel complesso, di manifestazioni di ostilità che non permettevano certo alle autorità fasciste di dormire tra due soffici guanciali, tanto che vennero richiesti rinforzi di uomini e di munizioni, mentre nelle file partigiane si intensificava l’attività clandestina.
CAPITOLO SECONDO
L’ATTIVITÀ DEL C.L.N. A CARATE
Di pari passo con l’attività partigiana venne costituito a Carate il C.L.N. -Comitato di Liberazione Nazionale composto dall’allora Segretario Comunale Mario Vergani, in qualità di presidente, da Augusto Cesana, cattolico - direttore della Cassa Rurale e Artigiana di Carate da Alfonso Cesana, impiegato comunista, da Guido Cesana, operaio, comunista, da Gianmaria Maj, insegnante elementare, del Partito d’Azione, da Ugo Pozzi, artigiano, socialista; quest’ultimo, avendo maggiori possibilità di azione, manteneva i collegamenti.
L’attività di questo organismo, nato dalla volontà di una lotta comune tra i rappresentanti dei diversi partiti, era molteplice: preordinare, da un punto di vista politico e organizzativo, l’eventuale insurrezione popolare, coordinare la raccolta di fondi per mandare aiuti ai deportati in Germania.
La raccolta di questi fondi, nonostante le gravi ristrettezze economiche in cui, anche per effetto della grave situazione generale, il paese si trovava racconta il Segretario Comunale Vergani superò ogni aspettativa e meravigliò gli stessi membri del C.L.N. che poterono in tal modo intensificare la loro attività, inviando in Germania numerosi pacchi di viveri e di vestiario.
Il C.L.N., tuttavia, non si adagiò sugli allori di questi primi successi ma, contando fiducioso sulla generosità della popolazione, organizzò successivamente l’invio di vestiario ai partigiani in montagna. Il vestiario veniva confezionato dalla Ditta «Rossi & Meregalli»il cui titolare era il Comm. Severino Meregalli ex-commissario prefettizio al Comune di Carate che provvedeva a recapitarlo nella cantina della Cassa Rurale, dove il direttore Augusto Cesana, ricorrendo a vari stratagemmi, si incaricava di inviarlo a destinazione.
Un ruolo di primo piano svolse, all’interno del C.L.N., l’allora Segretario Comunale Mario Vergani che, conoscendo vita e miracoli dei Caratesi e valendosi dell’autorità del suo ufficio, con il suo atteggiamento bonario e al tempo stesso deciso seppe spesso consigliare nel modo migliore e aiutare concretamente chi si rivolgeva a lui. Contemporaneamente, il Vergani rifiutava la propria collaborazione alle autorità del regime e, nonostante i fascisti chiedessero ripetutamente la lista dei renitenti alla leva, grazie anche all’aiuto dell’impiegata comunale Lina Aliverti, riusciva ad eludere astutamente le loro richieste consegnando un elenco in cui apparivano persone già partite. Riuscì persino, grazie all’aiuto di funzionari prefettizi, ad imporre al Prefetto la scelta di uomini fidati e impedì ad alcuni fascisti di mandare a segno, con basse manovre, la scalata al seggio di Podestà del Comune.
Il compito di mantenere il collegamento coi partigiani e con le varie fabbriche di Carate, per salvaguardarle da eventuali smantellamenti o da tentativi di invii di operai in Germania, era affidato ad Alfonso Cesana, impiegato presso la ditta Formenti, che per la sua ideologia politica trovò sbarrata la strada ad una possibile carriera e perse anzi, nel corso di questa vicenda, il posto di lavoro. Alfonso Cesana si prodigava per mantenere i contatti con la base operativa di cui facevano parte lo studente universitario Carlo Olmini, che operava prevalentemente con gli intellettuali milanesi anti-fascisti della «nuova generazione» e l’operaio Guido Cesana. Sebbene impiegasse gran parte del suo tempo libero nello stabilire i collegamenti con altri dirigenti partigiani, il Cesana trovava modo di dedicarsi con passione e profitto allo studio cosicché la cultura che egli, da semplice autodidatta, si formò in tempi difficili e incerti, costituisce un altro motivo di stima e ammirazione per lui.
Augusto Cesana, fervente uomo di Azione Cattolica, maggiore degli alpini, non aveva nessun legame di parentela con i Cesana già menzionati. Direttore della Cassa Rurale ed Artigiana di Carate, uomo retto e ricco di doti morali, assolveva i suoi compiti di responsabilità con competenza e profonda umanità, tanto che, ancora oggi, i caratesi serbano di lui un ottimo ricordo e un vivo rimpianto. Godendo di grande autorità e prestigio presso i suoi concittadini era spesso chiamato, dopo le ore d’ufficio, ad occuparsi di esecuzioni testamentarie, di divisioni di terreni, di fabbricati e la sua casa era meta di piccoli contadini, artigiani, esercenti che, dinanzi a lui, trovavano il modo di risolvere i loro problemi in modo equo.
Il ricordo lasciato da Augusto Cesana tra coloro che lo conobbero personalmente è quello di un uomo buono, onesto, schivo da ambizioni e immune da tentazioni che la sua posizione potesse procurargli. Frequenti erano gli incontri che Augusto Cesana, accompagnato dall’ignaro figlioletto Giancarlo, aveva a Monza con uomini politici della Resistenza; cattolici, comunisti, socialisti, aderenti al Partito d’Azione e con l’ex-confinato politico Angelo Nobili («Giulio»).
Gian Maria Maj era invece un buon montanaro della Bergamasca, trasferitosi a Carate ad insegnare. Tenente colonnello dei bersaglieri, trattava i suoi alunni con cuore aperto anche se la severità del suo comportamento richiamava un poco la disciplina di caserma. Anche la sua casa, come quella di Augusto Cesana, era meta e punto d’incontro per molti suoi concittadini che lo stimavano per la sua franchezza nel parlare, priva di fronzoli o di sottintesi. Vecchio antifascista, rappresentava il Partito d’Azione ed aveva frequenti contatti con Ferruccio Parri (il leggendario «Maurizio»). Più volte gli venne offerta la candidatura a deputato ma sempre decisamente rifiutò per continuare la sua opera di educatore. Rimase proverbiale presso i suoi allievi l’espressione che egli soleva ripetere per stimolarli allo studio: ... Montanaro o montanino scarpe grosse cervello fino ...
Al momento di costituire il C.L.N. la scelta di uomini onesti, capaci, operosi e franchi non poteva non cadere su questi nomi che erano la garanzia più valida di un buon funzionamento di questo organismo democratico nella clandestinità.
Alla fine dell’anno 1944 i caratesi si preparavano a salutare malinconicamente la conclusione di un altro anno di guerra in un clima di ristrettezze e di sconforto, con bicchieri colmi d’acqua e davanti a una tavola imbandita di quel poco che le tessere annonarie passavano.
Esattamente il 30 dicembre Augusto Cesana era intento con la famiglia a consumare la frugale cena quando si presentarono in casa sua dei provocatori che, spacciandosi per partigiani, chiesero qualcosa da mangiare; ottenuti dei panini imbottiti domandarono armi e, avuta risposta negativa, arrestarono il Cesana sotto gli occhi dei figli ignari e della moglie atterrita.
Simultaneamente, venivano tratti in arresto Alfonso Cesana e Gian Maria Maj. Trasferiti quella notte stessa alle carceri di Monza, furono picchiati a sangue perché parlassero. I briganti neri, intuendo di avere in mano dei pezzi grossi, insistevano per avere ad ogni costo informazioni che facessero di loro dei delatori. Tuttavia, nonostante le violenze, le sevizie, dalla loro bocca non uscì parola; il pensiero era costantemente rivolto alla salvezza dei compagni, della organizzazione e il ricordo delle loro famiglie attenuava il dolore fisico e morale derivante dalle percosse e dagli insulti con cui si tentava di piegare la loro volontà.
Ogni tentativo da parte di conoscenti, di amici per ottenere il rilascio di questi tre prigionieri fu vano; infatti, mentre Gian Maria Maj fu trattenuto per un mese nelle carceri di Monza, Augusto ed Alfonso Cesana venivano fatti proseguire per San Vittore a Milano e di li vennero deportati. Alfonso Cesana fu rinchiuso nel campo di concentramento di Bolzano e poté riabbracciare la propria famiglia solo parecchi giorni dopo la fine della guerra; Augusto Cesana fu invece destinato al campo di eliminazione dei condannati politici di Flossemburg in Germania, dove, il 18 marzo 1945 cessava di vivere a causa delle privazioni e delle malattie contratte.
CAPITOLO TERZO
I MARTIRI DI PESSANO
Due mesi dopo l’arresto dei componenti il C.L.N., e precisamente la notte del 26 febbraio 1945, la Resistenza caratese veniva mutilata con l’arresto di sei tra i principali componenti la Brigata S.A.P. Quella sera, Dante Cesana «Marco»si trovava nella piazzetta prospiciente la Casa di Salute di Carate per la consegna di una pistola rimessa a nuovo a Claudio Cesana.
Fatto lo scambio, Dante Cesana, a causa del coprifuoco, si disponeva ritornare alla propria casa allungando di proposito il tragitto per far perdere eventuali tracce, mentre Claudio Cesana, distante un centinaio di metri dalla propria dimora, ritornò sui propri passi con l’arma in tasca, precedendo Angelo Viganò quando, all’angolo di via Caprotti con via Damiano Chiesa, furono affrontati dai brigatisti neri. Claudio sentì il rumore dello scatto della sicura e non ebbe esitazione: prima ancora di ricevere l’intimazione di alt si girò di scatto e, impugnata la pistola, fece fuoco; malauguratamente, il colpo non partì, per cui fu facile per gli uomini in nero, armati fino ai denti, arrestare Cesana e Viganò.
Vennero portati alla Casa del Fascio sede della Brigata Nera «Aldo Rèsega» e picchiati a sangue con tale ferocia che la madre stessa di Claudio, la mattina seguente, stentò a riconoscere il figlio. Risalendo alle amicizie dei due arrestati e a qualche zelante brigante nero, i fascisti riuscirono a stabilire la corresponsabilità di Dante Cesana; circondarono la casa e lo obbligarono ad aprire e ad arrendersi. La fortuna, questa volta, fu benigna ai familiari di costui e ad altri due partigiani che si trovavano in quel momento in casa. Infatti, in cucina, si trovava immobilizzata in un letto una sorella di Dante, Albertina, che aveva appena partorito un bambino e, con la scusa di sistemare la puerpera ed il neonato, Dante ed il cognato Tremolada Ambrogio, Riva Carlo («Sergio») ed Attilio Bestetti, che erano intenti a pulire e ad oliare le armi da poco dissotterrate, temporeggiarono facendole sparire, con il materiale di propaganda, nel letto dell’inferma che i fascisti desistettero dal perquisire; gli altri locali venivano nel frattempo messi a soqquadro nella ricerca di quanto si trovava celato a pochi metri.
Non rinvenendo nulla di sospetto malgrado la perquisizione, essi portarono via Dante ancora in maniche di camicia; la stessa sorte toccò al Riva e al Bestetti, che, giustificando la loro presenza in quella casa con la scusa di acquistare del tabacco che il Tremolada vendeva, riuscirono poi a salvarsi dalla fucilazione.
«Sergio», nome di battaglia di Carlo Riva, non riuscì a comunicare con gli altri partigiani durante l’arresto, ma scorse «Tito»Claudio Cesana, pesto e macilento, reggersi a mala pena in piedi a causa delle percosse e dei maltrattamenti subiti; in seguito vide di sfuggita «Marco» Dante Cesana con la faccia tumefatta e la camicia intrisa di sangue. Riva e Bestetti vennero temporaneamente rilasciati e riaccompagnati a casa; questo breve intervallo permise al primo di bruciare, per tutta la notte il materiale di propaganda, mentre suo padre, invalido di guerra, sotterrava in giardino la pistola. Bestetti invece ebbe tutta la notte a disposizione per riordinare le idee ed essere pronto a rispondere ad altri interrogatori. Infatti all’alba furono di nuovo arrestati e con loro c’era anche Carlettino Vismara («Pino»), non ancora diciassettenne. Gli interrogatori, le torture, le percosse con nerbi di bue continuarono e Dante Cesana («Marco») per salvare i suoi compagni, dichiarava di essere il comandante della Brigata Partigiana e si assumeva completamente ogni responsabilità.
Alle ore 14 del 27 febbraio, in un pomeriggio quasi primaverile, i sei partigiani ammanettati vennero portati a Monza, al comando tedesco in via Tommaso Grossi, dove furono ricevuti da due file di soldati armati perché ritenuti pericolosi o per il timore che potessero scappare. Dal comando S.S. vennero fatti sfilare successivamente per le vie della città e Claudio, non potendo reggersi in piedi per lo stato in cui si trovava, venne sorretto dai compagni, pure loro incatenati.
Da questo punto in poi, la ricostruzione dei fatti è affidata alla testimonianza degli amici delle A.C.L.I. di Pessano, che raccontano come avvenne la fucilazione dei sette martiri in quel paese, e a quella di Don Baraggia di Monza, che li assistette fino alla fine.
Gli arrestati infatti, vittime della vendetta tedesca, pagarono con la loro vita, assieme ad altri giovani patrioti, l’attentato compiuto contro il comandante tedesco di Pessano da parte di una formazione partigiana che operava in quella zona.
Purtroppo, anche in questo caso, molti documenti ufficiali circa le operazioni partigiane realizzate nella zona di Pioltello, Cassano, Gorgonzola e Monza sono stati smarriti e non possiamo dire con certezza matematica chi fossero gli sparatori della Molgora, autori dell’attentato.
Ci atteniamo quindi alle testimonianze più numerose (vox populi) e alla ricostruzione dei fatti fornitaci da testimoni oculari.
Le famiglie degli Oggioni e dei Colombo, la cui abitazione si trovava sul luogo dell’attentato, ci hanno dichiarato che i partigiani erano tre; di essi due erano in bicicletta e uno a piedi.
Sempre secondo la deposizione resa da queste famiglie, le fattezze somatiche di uno dei tre sono riconoscibili nella persona del capo GAP di Gorgonzola, Luigi Restelli, il quale fu ucciso in un’altra azione partigiana a Cassano.
Anche riguardo al motivo del ferimento dell’ufficiale tedesco non siamo riusciti a trovare atti ufficiali.
La Signora Gessati dell’A.N.P.I. (Associazione Nazionale Partigiani d’ltalia) di Milano ci ha fornito un suo ricordo dei fatti, che riportiamo.
Il comandante la guarnigione tedesca di Pessano era stato processato dal Tribunale Partigiano e condannato a morte per sue rappresaglie compiute nella zona nostra e in quella di Pavia. Gli era persino stato dato un nomignolo, «il Tigre».
Probabilmente, la notizia del trasferimento non era ancora giunta ai vari componenti partigiani del G.A.P. locali che già studiavano l’attentato.
Fu quindi un errore da imputare alla enorme difficoltà con cui, in quei momenti, le notizie potevano essere comunicate.
Per quanto riguarda la personalità del tenente ferito, abbiamo potuto concludere che a Pessano (pur essendovi da poco), costui era rispettato per il modo abbastanza umano di impostare le relazioni tra tedeschi e pessanesi. Molti anziani ricordano infatti di aver bevuto con lui nelle osterie locali.
Nelle officine della «Speer» di Pessano, durante il suo breve periodo di comando, non ci furono sabotaggi.
Il pomeriggio del giorno 8 marzo 1945, alle ore 16,30, dalla sede di comando del distaccamento dell’Organizzazione Speer di Pessano partiva diretta a Milano, l’automobile del tenente tedesco, la cui personalità abbiamo sommariamente cercato di ricostruire.
L’ufficiale era accompagnato da un militare italiano che fungeva da autista. Giunti all’imbocco della via Monte Grappa, i due sentono il rombo improvviso di alcuni aerei leggeri da mitragliamento.
Schiacciando l’acceleratore si spingono veloci per oltrepassare il ponte del torrente Molgora e girare quindi a sinistra.
Abbandonato quindi l’automezzo, cercano riparo accanto, meglio contro il muro della casa Colombo, che fiancheggia la strada. I Colombo erano allora allevatori di maiali.
Il luogo si presta particolarmente a soddisfare l’esigenza di un completo riparo, poiché la vegetazione, allora rigogliosa (vi erano infatti piante e sterpaglie), mimetizza pure l’automobile.
Trascorrono tre lentissimi minuti.
Improvvisamente, un brusco fruscio li fa sobbalzare: tre persone mascherate irrompono di scatto dal folto fogliame.
Sono i componenti di una delle diverse pattuglie G.A.P. appostate nei dintorni di Pessano, con l’incarico di procurare armi e di «dare una lezione» al Tigre, il comandante delle forze militari tedesche situate in questa zona. Ma i G.A.P. non sanno della recente sostituzione.
All’apparire delle tre persone, l’ufficiale tedesco tenta istintivamente di portare la mano alla pistola, ma una raffica lo precede raggiungendolo all’addome. Colpito da 2 proiettili, si accascia al suolo.
L’autista, con un balzo improvviso che sorprende i tre partigiani. riesce a scappare e corre terrorizzato fino al comando Speer.
In tutta fretta. i partigiani raccolgono l’arma del tenente esi dileguano nei campi circostanti. Sembra che siano fuggiti in direzione di Bussero e di lì siano stati trasportati fino a Pioltello, ad un comando S.A.P.
Portata a termine l’azione essi ne fecero un rapporto dettagliato al comando della 15a Brigata Matteotti.
La drammatica azione, svoltasi nel giro di brevissimo tempo, non ha alcun testimone all’infuori dei protagonisti.
Primo ad accorrere è il Signor Colombo che, avendo udito i sordi colpi della raffica, si porta a lato della casa e presta i primissimi soccorsi al tenente ferito. Aiutato dalla moglie, lo porta in casa, gli slaccia il giubbotto e, rendendosi conto della gravità del caso, corre a chiamare il dottor Picollo.
Circa quindici minuti dopo, giungono una decina di militari tedeschi della Speer e il dottore il quale, constatando la gravità della ferita, prega il sergente tedesco di provvedere ad un immediato ricovero in ospedale.
Gli si risponde che il comando di Monza ha già inviato una auto ambulanza che giungerà sul luogo entro qualche minuto, preceduta da militari. Alle 17 infatti, con l’ambulanza, arriva un plotone di S.S., capitanato da un ufficiale che inizia subito la caccia ai partigiani. Viene rastrellata tutta la zona compresa tra il paese, la cascina Canepa e la Pariana, poiché il numero di militari del plotone S.S. non è sufficiente per un’azione a raggio più vasto.
Frattanto, in casa Colombo, due infermieri tamponano nel migliore dei modi l’emorragia della ferita del tenente.
Sono presenti il Maggiore Wernik ed il fascista camerata Luigi Gatti. «No uomini di Pessano... no uomini di Pessano», sono queste le parole che vengono ripetute diverse volte dalla bocca contratta del tenente ferito, come affermano i Colombo.
Alle 17,20 l’autoambulanza parte alla volta dell’ospedale di Monza e gli ufficiali tedeschi con Luigi Gatti si radunano negli uffici della Speer.
Il paese frattanto è in subbuglio: la notizia è corsa in un baleno. Tutte le strade vengono presidiate da soldati tedeschi. I pochi uomini di Pessano sono sollecitati dalle mogli a scappare e a nascondersi, per paura di rappresaglie.
Alle 16,50 la moglie del Signor Scotti, podestà di Pessano, telefona al marito che si trova a Milano per commissioni. Immediatamente Scotti decide di tornare in paese. Si consulta con il cugino del Banco Ambrosiano, ma questi gli consiglia di non partire. Scotti, invece, capisce che la sua presenza in paese è di importanza capitale e quindi lascia Milano.
Giunto in bicicletta alla cascina Valera verso le 18,20, viene fermato dal signor Rusnati che lo ragguaglia dell’accaduto. Anche costui lo esorta a non entrare in paese. Ma il podestà prosegue, e arrivato a Pessano alle 18,35, trova il dottor Picollo, che gli narra come e quando il fatto sia accaduto, ma, ripetendo le parole del tenente ferito, gli assicura soprattutto che gli attentatori non sono del paese.
Giunto a casa. Scotti trova un soldato delle S.S. venuto per comunicargli di essere atteso al comando Speer per una riunione urgente. Presente al raduno c’è pure il dottor Luise, segretario comunale che, avvertito per telefono dalla moglie di Scotti, è appena tornato da Gorgonzola. Nella sala del palazzo (attuali scuole) inoltre sono convenuti il Maggiore Wernik. il suo interprete Karl Kreiske (attualmente vivente a Vienna) e gli ufficiali tedeschi.
La riunione ha subito inizio.
Da principio, le S.S. tentano di imputare la colpa del misfatto ai partigiani di Pessano ed invitano il podestà a stilare una lista di nomi di cittadini da fucilare.
Scotti risponde replicando che a Pessano non esistono partigiani e che non è mai successo nulla contro le forze tedesche e che, anzi, il tenente ferito, per la sua gentilezza e familiarità, era ben visto in paese.
Per contro, quelli non vogliono accettare né ragioni né scusanti. Scotti allora gioca l’ultima carta che gli rimane: fa chiamare tutti i soldati tedeschi delle Speer di Pessano e, di fronte al superiori, chiede loro se abbiano qualche volta ricevuto un solo sgarbo da persone del paese.
Tutti dicono di no e ciò imprime una svolta decisiva alla situazione.
Gli ufficiali sono ancora perplessi, ma proprio in questo momento il gerarca Luigi Gatti propone una lista di nomi di alcuni carcerati di Monza. Vengono compiute diverse telefonate al comando monzese, di cui Scotti e il dott. Luise non riescono a capire il senso, perché fatte in lingua tedesca.
A mezzanotte, la riunione ha termine.
E’ deciso che saranno fucilate dieci persone di alcuni paesi che stanno attorno a Pessano, ma di costoro non sono ancora specificati i nomi né il luogo e l’ora dell’esecuzione.
Calate le tenebre per tutta la notte, a Pessano non si dorme.
In chiesa la gente ha pregato.
Don Varisco, impaziente, va e ritorna continuamente dalla parrocchia alla casa del podestà. Quando finalmente lo vede arrivare dalla «Speer», gli si fa incontro con ansia per sapere della decisione.
Quasi tutti gli uomini sono scappati dal paese; chi vi è restato rimane chiuso in angusti nascondigli.
La mattina del 9 marzo a Pessano non si verifica alcun fatto degno di nota. Nell’animo di tutti c’è un’amara apprensione e la timorosa attesa di un pericolo che incombe minaccioso su tutti.
Frattanto, a Monza si mette in moto la spietata vendetta tedesca. Di essa, Don Baraggia lasciò scritto alcune pagine di un’accorata semplicità; eccole in forma integrale:
«Seppi subito in mattinata che si stavano giudicando una decina di carcerati tolti dal nostro S. Vittore di via Mentana, dovendo essere condannati per rappresaglia dopo il ferimento di un tedesco in quel di Pessano.
E cominciarono a passare le ore senza che si potesse sapere qualche cosa di preciso.
Un buon amico, al quale serbo imperitura gratitudine, mi poté riferire che, purtroppo, sette dei dieci condannati dal tribunale misto (tedeschi e italiani) andavano incontro alla fucilazione. Girai per non so quali e quante vie di Monza come uno sperduto: rientrai in casa, ne uscii non so quant’altre volte: sul viso di quanti incontravo leggevo un’impressione ben chiara di timorosa taciturnità. Anche i pochi tedeschi che (da un po’ di tempo si accompagnavano a due a due) giravano per la città, mostravano un contegno riservato e diffidente: sentivano purtroppo che la caccia non solo ai fascisti, ma anche ad essi, era aperta e incombente!
Verso le 13 potei sapere che la sentenza ormai era sicura. Sette dovevano andare all’altro mondo.
Poco più tardi, varcando per l’ennesima volta la soglia di casa, raccolsi (orig. raccorsi NdR) un pezzetto di carta scritto a matita; esso diceva: “...sette stanno per andare al Creatore, saluti...”; seguiva una firma incerta ed un po’ artefatta che riconobbi poco dopo quando un giovanotto mi avvicinò e mi disse quasi all’orecchio: “Non ha ricevuto un biglietto? faccia presto”. Lo prendo per un braccio e gli chiedo: “Chi manda?... e dove sono le vittime?”. Ma egli mi sfugge e scompare.
La provvidenza, finalmente, verso le 16 mi indirizza di preciso verso le scuole “Ugo Foscolo”, luogo dove operava il Tribunale ben presidiato e guardato dalle rigidissime SS. in pieno assetto di guerra.
Avvertii Monsignor Arciprete di quanto mi proponevo di fare e, inforcata la bicicletta, raggiunsi a precipizio il cortile delle scuole suddette.
Potei anzi salire al 1° piano del grande caseggiato ove erano i condannati e, ripensandoci bene, ancor oggi non riesco a comprendere come io abbia potuto arrivare fin lassù, passando innanzi alle sentinelle disposte in ogni angolo... Ed a quanti mi rivolgevo mi veniva risposto che bisognava attendere: e l’attesa si protrasse quasi per un’ora; ed intanto si avvicinava il momento dell’esecuzione!
Alzando gli occhi, mi fu dato di scorgere ad una finestra una signorina interprete, e tosto la pregai che spiegasse al comandante della polizia il motivo della mia presenza in quel luogo: e non le nascosi il mio timore di trovarmi solo sotto l’incubo di quegli sguardi delle S.S. che andavano e venivano squadrandomi dall’alto in basso e parlottando fra loro.
Ma ecco il comandante che mi si para dinnanzi e, gesticolando, mi grida che a simili delinquenti si deve l’inferno. il paradiso rosso ecc., lasciando me e l’interprete non poco sconcertati e impressionati assai.
Non mi mossi, quantunque avessi capito ben chiaro che di fronte a simili propositi nulla vi fosse da tentare; non mi persi d’animo.
E visto che nessuno ancora mi cacciava di là, mi avvicinai alla scala piantandomi vicino alle sentinelle: di lì, pensai, dovranno passare i condannati scendendo a piano terreno; avrò almeno la possibilità di vederli e di dir loro una parola, sia pure di sfuggita. Nel mio abbattimento, mi ricordai che proprio tra i tedeschi addetti al servizio in quel fabbricato, doveva esservi un addetto alla S.S. di religione cattolica, che avevo un giorno incontrato nel nostro Duomo di Monza e che mi fu tanto riconoscente per avergli ritrovati i guanti da lui smarriti nello stesso Duomo.
Durò molto la mia fatica per poterlo rintracciare; poi all’improvviso lo vidi uscire da una porta: gli corsi incontro, lo pregai, anzi egli stesso intuì tosto, la ragione della mia presenza in quel luogo.
Corse, non mi fu dato sapere da chi, forse dallo stesso comandante, e tornò tutto felice di comunicarmi che mi era concesso qualche istante per incontrarmi coi condannati; bisognava però far presto perché urgeva partire per il luogo della fucilazione prima che cadesse la sera.
Mi feci innanzi nel corridoio, scortato da molte guardie delle S.S. in uniforme, ed abbracciai ad uno ad uno quei figlioli che compresero la triste realtà del loro destino!
E quando, sotto gli occhi dei tedeschi, si inginocchiarono tutti e sette abbracciandomi in un unico amplesso e stringendomi forte forte quasi a comunicarmi tutti i loro sentimenti e recitarono l’ultima preghiera con me, io alzai la mano a benedirli; infine si rialzarono sorridenti e mi rivolsero le loro ultime parole. Lo sguardo sempre insistente delle S.S. (evidentemente sorprese e commosse), non mi permise altro se non che mi consegnassero chi il fazzoletto, chi la sciarpa: qualcuno non aveva proprio nulla!
Sorse un’affrettata discussione tra di loro in quanto uno di essi, il più giovane, affermava di essere stato escluso dalla fucilazione: cosi almeno sembrava a lui d’aver sentito dire in tribunale.
Ma uno dei tre di Carate, mettendogli la mano sulla spalla lo rimproverò benevolmente dicendo: «Che paura hai di morire? Non temere: abbiamo qui il nostro padre che ci assiste e benedice: il nostro sangue non sarà dato invano. Ci vendicheranno, ne sono sicuro»! Io avevo gli occhi così pieni di lacrime che a stento potevo vedere. Abbracciati sempre l’uno all’altro (erano ammanettati a due a due) seguimmo il comandante della SS. che si era avvicinato per farci premura.
Bisognava, diceva egli, arrivare sul posto dell’esecuzione prima dell’imbrunire. Scendemmo le scale, nel cortile attendeva il solito lugubre carrozzone che avrei rivisto otto giorni più tardi, accompagnando altri cinque al supplizio.
Un nugolo di armati accompagnava il corteo: poco dopo, a Pessano, si compiva la strage!
Questi dunque gli avvenimenti che ci portano fino alle 17 del pomeriggio di quel luttuoso 9 marzo.
Nell’umido tramonto che precede la notte, Pessano è percorsa da una voce concitata che annunzia l’imminente fucilazione di dieci persone. Essa verrà compiuta nello stesso luogo dove fu aggredito il tenente tedesco. Verso le 17,15 le prime macchine SS. arrivano in paese. provenienti da Monza. Portano anche un giovanotto biondo tutto ammanettato e con numerosi segni di percosse. Si fermano nel cortile di casa Colombo.
Poi è un continuo giungere di soldati tedeschi. Di essi alcuni presidiano il paese nei punti principali ed altri si dislocano, piazzando fucili mitragliatori ai bordi della cava situata dietro la casa Colombo.
Questa operazione viene eseguita con scrupolo, poiché si teme il sopraggiungere di alcune forze partigiane che impediscano la fucilazione. Alle 17,30 arriva il lugubre carrozzone scortato da SS. e fascisti. Questi ultimi, da testimonianze, sembrano ubriachi o comunque alquanto eccitati.
Il racconto dell’amico Tremolada di Pessano, da noi intervistato, si interrompe momentaneamente: la sua memoria sta rivivendo i momenti tragici avvenuti trent’anni or sono. Allora ragazzino, appartato dietro l’angolo di casa, vede schierare otto persone al muro di una porcilaia che fiancheggia il torrente Molgora; nota un viavai di persone e, con raccapriccio, vede che vengono fatti sgombrare dalla porcilaia i maiali per paura che le pallottole possano uccidere qualche animale.
Compiuta questa macabra operazione, prima che venga dato l’ordine di sparare viene allontanato Carlettino Vismara («Pino»solo per la sua giovanissima età; viene salvato da un’atroce morte ma lo si costringe ad assistere al compiersi dell’eccidio.
E’ l’ora: si punta la mitragliatrice, ma questa si inceppa; si fanno avanti due figuri neri, di cui uno è il caporione Gatti che, con fucili mitragliatori MAB. fanno fuoco, non prima che Alberto Gabellini possa gridare: «Sparate su di me, vigliacchi, non su questi ragazzi».
I corpi martoriati si ammucchiano, come per fondersi in un abbraccio eterno; alcuni rantolano ancora e vengono finiti tutti con il colpo di grazia alla nuca. Compiuta la carneficina, i massacratori decidono di gettane i corpi nella Molgora, forse nella speranza di nascondere o cancellare il loro misfatto.
Il parroco di Pessano, Don Vincenzo Varisco, interviene ed ottiene, dopo non poche insistenze e suppliche, l’autorizzazione a seppellire i corpi martoriati dei sette Martiri nel Cimitero locale.
Carlettino Vismara («Pino»), con ancora negli occhi la tremenda visione, viene riportato a Monza e successivamente trasferito a San Vittore a Milano unitamente a Carlo Riva e ad Attilio Bestetti che lasceranno il carcere ad insurrezione avvenuta.
I familiari degli uccisi chiedono invano di poter dare loro sepoltura nel Cimitero di Carate; ogni tentativo è inutile perché le Brigate Nere si oppongono con le armi spianate ad ogni umana richiesta, negando perfino ai congiunti più stretti di poter rivedere un’ultima volta le salme. L’unica concessione è che le suore di Pessano ripuliscano i cadaveri e ne ricompongano pietosamente le membra straziate.
Nel frattempo, alla «Wender» di Cusano, dove lavoravano Dante Cesana ed Angelo Viganò, i compagni dei giustiziati sono ai loro posti di lavoro, con gli occhi umidi di pianto e il cuore gonfio d’angoscia, in attesa di un particolare segnale per sfuggire ad una eventuale cattura dei resti della Brigata Partigiana.
Tutti sono vigili, assorti in una drammatica attesa; la cellula comunista clandestina è in allarme; le mani che manovrano le macchine utensili non si muovono con l’abituale scioltezza: la mente di tutti è rivolta ai compagni caduti. La vigilanza però non viene osservata da Carlo Vergani e da Giuseppe Merli che, con una decisione improvvisa, generosa ma anche colma di rischi, infrangono le ferree regole della clandestinità e abbandonano la fabbrica per recarsi in bicicletta al Cimitero di Pessano a rendere omaggio al compagni caduti, esponendosi in tal modo al pericolo d’altre tragiche rappresaglie e all’eventualità di essere individuati.
Nonostante la drammatica fine dei loro compagni, i superstiti della Brigata Partigiana non si dispersero, anzi, nella certezza della imminente vittoria, moltiplicarono la loro attività, le file si ingrossarono finché il vento di aprile soffiò così forte da spazzar via fascisti e invasori.
Il popolo insorse, cacciò i tedeschi e i fascisti rimasti tentarono invano ogni possibile nascondiglio per sfuggire al giusto castigo popolare.
Era il 25 aprile 1945.
Nella cronistoria di questi fatti si è tracciata una rapida biografia dei componenti il C.L.N.; non possiamo esimerci ora dal tracciare un analogo, sia pur breve profilo, dei tre giovani giustiziati e di coloro la cui vita fu tragicamente spezzata dall’odio fascista.
Dante Cesana («Marco»), caratese era un autentico figlio del popolo: di famiglia operaia, era nato e cresciuto nel popolare rione del «Loghetto». Durante la lotta partigiana aveva saputo conquistarsi, per le sue equilibrati doti di uomo e di capo, la stima e l’ammirazione dei compagni di lotta per i quali si sacrificò con piena consapevolezza. Nella sua famiglia, raccolta intorno al vecchio padre Sandrin, ormai ottantacinquenne (che ci ricorda papa Cervi) la memoria di lui è vivissima ancor oggi e le sorelle custodiscono gelosamente ogni oggetto a lui appartenuto.
Particolarmente significative sono le lettere scritte da Dante Cesana mentre si trovava in Russia; le raccomandazioni con cui tali reliquie sono state consegnate a chi scrive sono la conferma dell’immutato amore che tutta la famiglia nutre ancora oggi per lui.
Belle le lettere, ma soprattutto commoventi le poesie che Dante scriveva nei ritagli di tempo, al lume di candela, dedicandole alla mamma scomparsa e ai familiari. Esse ci rivelano la sensibilità affettuosa e la delicatezza di sentimenti con cui si rivolgeva ai suoi cari lontani. L’11 gennaio 1943 dedicava al padre questi brevi versi
«... Mentre mugghia l’infernal bufera
nella notte fredda e nera
a te vola il pensier mio
mentre grande il mio desio
di vederti, di abbracciarti
di ritornare per non più lasciarti ...».
Altri versi dedicava alla sorella in procinto di sposarsi:
«... O sorella mia, o sorella cara
tu che facesti in questa mia casa
di Colei le veci che lassù rischiara
la nostra via dal buio invasa ...
Tu che eri la nostra fiamma
la nostra amica, la nostra mamma
or t’en vai con fiori in testa
felice sposa alla tua festa...
Va felice o sorella mia
ed al male non dar retta
dà retta solo a! tuo amor...
Ma se un giorno, per ria sorte
vorrai conforto ad un dolor
ritorna pure da chi le porte
chiuse mai avrà al suo cuor ...».
Di ritorno dalla Russia, dopo l’8 settembre, Dante Cesana ottiene, per le sue capacità lavorative, l’esonero dal servizio militare; una volta in fabbrica, a contatto con operai che non hanno mai tollerato la politica del fascismo, non perde tempo a dar vita e fisionomia alla Brigata Partigiana reclutando e animando questo gruppo con il suo coraggio e la sua fervida azione. Dopo il lavoro trova tempo e modo per dedicarsi allo studio frequentando un corso serale per geometri assieme all’amico e compagno d’armi e di brigata Carlo Riva («Sergio»). Non pago delle tante attività, intraprende contemporaneamente lo studio della lingua tedesca e non trascura i doveri che la vita clandestina e la carica che ricopre gli impongono.
Claudio Cesana («Tito»).
Appena ventenne ma carico d’esperienze tratte dalla vita quotidiana nella fabbrica in cui lavora (la «Memini»di Sesto S. Giovanni) è pure lui esonerato dal servizio militare per l’abilità con cui assolve alle sue mansioni. Conosce la vita dura e le angherie dei dirigenti tedeschi all’interno della fabbrica, ma non è tipo da porger l’altra guancia; si ribella e diventa uno dei promotori degli scioperi del 1943.
Arrestato una prima volta e rilasciato per le sue doti tecniche, non disarma né si ritrae in un angolo ad aspettare ma si rafforza in lui la volontà di battersi cosicché non ha esitazioni ad entrare a far parte della Brigata Partigiana. Caratese autentico come Dante, Claudio era nato nel 1924 nel rione di S. Bernardo da una famiglia di piccoli contadini; venne ricordato da quanti lo conobbero come un giovane di animo sensibile, sempre sorridente, studioso, meticoloso; notevolmente impegnato a causa delle otto ore in fabbrica e per la difficoltà di raggiungere quotidianamente il posto di lavoro, trova tuttavia il tempo per impegnarsi con assiduità e convinzione nella attività partigiana, senza trascurare di aiutare il padre anziano nel lavoro dei campi. Le uniche ore libere di questa intensa vita sono quelle che egli dedica con passione alta pittura; alcuni suoi paesaggi ed alcune madonne sono di notevole pregio.
Catturato dalle Brigate Nere, subisce feroci e bestiali trattamenti; a conferma del suo nobile comportamento e della fermezza con cui seppe difendere il segreto delle organizzazioni partigiane c’è una frase che uno dei suoi aguzzini rivolse al padre di Claudio: «Gh’è un biondin: l’è vun de quei che ‘l parla no ...».
Angelo Viganò («Tugnin»). Ex-aviere del Settimo Stormo Caccia, dopol’8 settembre riprende il suo posto di lavoro alla «Wender» di Cusano. Le imminenti nozze con la sorella di Claudio Cesana e l’aver già prestato il proprio dovere di soldato non gli impediscono di impegnarsi nella lotta clandestina. Dimostra in più occasioni di non aver alcuna paura dei fascisti e si fa beffa di loro gettando volantini contro il regime perfino nei loro covi; sorpreso in una di queste azioni viene fermato al posto suo il fratello Flaminio, a causa della straordinaria rassomiglianza tra i due; l’alibi di ferro di cui Flaminio è in possesso permette ad entrambi di sfuggire alle rappresaglie fasciste.
Sergio Devani («Mosca»). Comandante della 120a Brigata Garibaldi GAP, geometra, era impiegato alla Stipel di Seregno; trasferitosi in casa di Enrico Rimessi, pure lui gappista, per meglio coordinare le loro imprese, collaborò alla realizzazione di parecchie azioni partigiane soprattutto a Milano. Il Devani fu uno degli ideatori di un piano di sabotaggio che si sarebbe dovuto attuare contemporaneamente alla Direzione centrale della Stipel, all’Edison (attuale Enel) e alla Fargas, in modo che la produzione bellica subisse un rallentamento o addirittura fosse bloccata per qualche tempo.
Ricercato attivamente, venne arrestato in seguito a delazione il 15 settembre 1944 in Foro Bonaparte a Milano e di lì portato a Monza dai nazi-fascisti per essere sottoposto a terribili quanto inutili sevizie. Da ultimo, forse vergognandosi della lezione di coraggio che un partigiano dava loro, i suoi aguzzini lo portarono a Cambiago e lo fucilarono. Ancora oggi si possono vedere, nel muro del cascinotto di campagna presso il quale avvenne l’esecuzione, i fori delle pallottole lasciate dai fucili mitragliatori.
Nella cella dove venne rinchiuso prima della sentenza, scrisse su un muro con l’ausilio delle unghie: «Sono un condannato a morte. Salutate mio padre».
Il 4 novembre 1974 venne decorato con la medaglia d’argento al valor militare.
Parlando di Devani, non si può non parlare di Enrico Rimessi di Verano, suo amico inseparabile e, come lui, cospiratore. Rimessi venne arrestato per atti contro il regime fascista e processato dal Tribunale speciale di Como, che gli inflisse 24 anni di reclusione. Trasferito nel carcere di Alessandria per scontarvi la pena, gli venne applicata al braccio una fascia recante la scritta: «Terrorista pericoloso, massima sorveglianza». Da quella casa di pena riuscì ad evadere, raggiungendo poi le montagne di Dongo, dove combatté con le formazioni partigiane.
Angelo Nobili («Giulio»), a Carate meglio noto come Fanin, si era iscritto al PCI fin dai tempi del Congresso di Livorno. Durante il regime non si piegò mai ai voleri dei fascisti: venne condannato una prima volta a tre anni di galera e tre di sorveglianza speciale. Scontata la pena venne licenziato dalla Stipel dove lavorava come capo tecnico; arrestato nuovamente per la strenua attività antifascista venne confinato a Gasperina (Catanzaro) per altri tre anni.
In questa località c’era pure Umberto Terracini e anche Giulio poté frequentare «l’Università comunista»e apprendere le nozioni politiche e storiche con altri confinati.
Al ritorno dal confino, dopo due o tre mesi di inutile ricerca di un posto di lavoro, riuscì a farsi assumere in una fonderia di Monza. Dopo l’8 settembre fu costretto a vivere nella clandestinità finché raggiunse a Rogolo in Val Masino la 52a Brigata Rosselli divenendone il commissario di brigata, col nome di «Giulio»mentre «AL», figlio dell’ex-presidente della repubblica Luigi Einaudi, ne assunse il comando.
Andrea Ronchi. Operaio tessile di Agliate, si arruolò nella 55a Brigata Rosselli Distaccamento B. Croce. Seppe distinguersi subito per dedizione spontanea in ogni azione, a rischio della vita.
Catturato, insieme ad altri partigiani, nell’ottobre 1944 in Val Biandino, seppe affrontare il supplizio con fermezza, destando negli stessi nemici la più viva ammirazione. Venne fucilato dietro il cimitero di Introbbio quello stesso mese di ottobre. Riconosciuto a stento dal fratello dopo l’esecuzione, grazie agli indumenti che portava, gli fu data sepoltura nel cimitero di Agliate. Ci rimane di lui un’unica lettera inviata alla madre poco prima dell’esecuzione, nella quale chiede perdono per il dolore che le avrebbe procurato la sua imminente fucilazione. Fu un patriota eroico e modesto, a molti ancor oggi sconosciuto.
Luigi Cesana. Renitente alla leva militare repubblichina, venne arrestato in Piazza della Pesa a Verano, nel corso di un rastrellamento, e portato a Desio per essere incorporato nella locale G.N.R. (Guardia Nazionale Repubblichina).
La mamma e la sorella di Mario Preda, che erano legate a lui da amicizia, dopo non poche peripezie riuscirono a farlo disertare e a farlo giungere fino a Omegna. In questa città, dopo aver passato incolume un posto di blocco fascista ed aver fatto perdere le proprie tracce a due spie del regime, raggiunse la Brigata Beltrami, ritrovandovi l’amico Gerolamo Preda, insieme al quale venne abbattuto mentre entrambi si recavano a portare rinforzi per la liberazione di Torino; Luigi Cesana morì a Vencelli per le ferite riportate.
Mario Preda, soprannominato «Topolino», di 15 anni era un ragazzino intelligente, vivace ma non monello, l’ultimo della covata di otto fratelli. Deciso a seguire l’esempio di due suoi fratelli maggiori anziché restarsene al calduccio a farsi viziare dalla mamma o dalle sorelle, partì da solo alla ricerca della leggendaria banda Beltrami.
Con tutta la famiglia mobilitata nella Resistenza, Mario non voleva essere considerato un ragazzino e raggiunse Seregno da dove, con un autocarro, si fece portare a Novara. Di lì, a piedi e con mezzi di fortuna, raggiunse il Lago Maggiore, alla ricerca del fratello Gerolamo che era al seguito di Beltrami, finché fu accolto nella Brigata Rocco della 2a Divisione Redi (Gianni Citterio di Monza).
Il suo comandante «Aries» così lo ricorda.
«… Portai l’ultima volta «Topolino»nell’osteria di Baveno. Gli uomini, stanchi e affamati, stavano accosciati sul pavimento, mentre la poco luce gettava ombre strane fra i corpi. Vivace, irrequieto, forse conscio dell’atroce morte che lo attendeva l’indomani, Topolino girava nervosamente per il locale. La sua allegria mi colpì favorevolmente e una impressione subitanea di simpatia si impadronì di me; avevo dinnanzi a me un ragazzino di 15 anni, consapevole di quello che l’attendeva e che sapeva quello che arrischiava.
Si dormì nell’attesa della battaglia che il giorno dopo avrebbe avuto luogo per l’occupazione di Baveno. Al risveglio vennero divisi i compiti, ma a Topolino fu negato l’onore di combattere perché era ancora un bambino. «Topolino» protestò, implorò, gridò ed alfine si ribellò; rubò una baionetta e raggiunse un compagno in postazione alla mitragliatrice. I fascisti contrattaccarono ma le ondate che venivano all’assalto furono falciate da un fuoco micidiale.
Purtroppo la situazione divenne poco dopo insostenibile perché i fascisti cercarono di cogliere la postazione alle spalle.
Topolino si allontanò, forse per cogliere meglio le occasioni di battere il nemico. Vide il compagno alla mitragliatrice cadere e ritornò verso la postazione: poi colpi di una raffica lo colsero a metà strada... il suo sangue quindicenne bagnò la strada. Era il 25 aprile 1945; le bande partigiane liberavano Milano...».
La sera di quello stesso giorno, i superstiti del CLN e precisamente Gianmaria Maj, Guido Cesana, la partigiana Entide Zecca e, in un secondo tempo, il Prevosto di Carate, Don Luigi Crippa, si recavano al comando tedesco per trattare la resa.
Nella prima decade di maggio del 1945 (esattamente l’11 maggio), le spoglie di Dante Cesana, Claudio Cesana, Angelo Viganò e Sergio Devani venivano riportate a Carate per la sepoltura e tutti i cittadini caratesi accorrevano in folla commossa a rendere l’estremo saluto ai resti mortali dei loro giovani Eroi, che ora riposano assieme, così come assieme lottarono e assieme perirono.
Dalle loro tombe, attorno alle quali si rinnova ogni anno il pellegrinaggio reverente e commosso della popolazione tutta di Carate, essi continuano a testimoniare a quanti non hanno dimenticato e a quanti vogliono apprendere, come si ama il proprio Paese e come se ne difende la libertà.
LO AVRAI
CAMERATA KESSELRING
IL MONUMENTO CHE PRETENDI DA NOI ITALIANI
MA CON CHE PIETRA SI COSTRUIRÀ
A DECIDERLO TOCCA A NOI
NON COI SASSI AFFUMICATI
DEI BORGHI INERMI STRAZIATI DAL TUO STERMINIO
NON COLLA TERRA DEI CIMITERI
DOVE I NOSTRI COMPAGNI GIOVINETTI
RIPOSANO IN SERENITÀ
NON COLLA NEVE INVIOLATA DELLE MONTAGNE
CHE PER DUE INVERNI TI SFIDARONO
NON COLLA PRIMAVERA DI QUESTE VALLI
CHE TI VIDE FUGGIRE
MA SOLTANTO COL SILENZIO DEI TORTURATI
PIÙ DURO D’OGNI MACIGNO
SOLTANTO CON LA ROCCIA DI QUESTO PATTO
GIURATO FRA UOMINI LIBERI
CHE VOLONTARI SI ADUNARONO
PER DIGNITÀ NON PER ODIO
DECISI A RISCATTARE
LA VERGOGNA E IL TERRORE DEL MONDO
SU QUESTE STRADE SE VORRAI TORNARE
AI NOSTRI POSTI CI RITROVERAI
MORTI E VIVI COLLO STESSO IMPEGNO
POPOLO SERRATO INTORNO AL MONUMENTO
CHE SI CHIAMA
ORA E SEMPRE
RESISTENZA
Piero Calamandrei
Carate Brianza, 1 Maggio 1945.
Il primo Maggio festa del lavoro festeggiato da tutti i lavoratori e dal popolo di Carate Brianza.
1. Su invìt del Comitaa de liberaziùm de Caraa
anca nel noster paès el prìm de Mag l’è stà festeggiaa
con grand differenza però di àlter an
anzi cònt un scopo sacrosanto e different in quest’an.
2. Quest’an se dovèva festeggià la data de resurreziùm
la disfatta del fascismo che l’ha ruvinaa la nostra Naziùm.
circostanza speciàl per tut nùgn Caratès
e ciòè ricordà i tri Martir fusilaà del noster paes.
3. A la mattina con foièt volànt e manifèst murài
Se invidàva la popolaziùm a senti la parola del Comitaa
oratùr dovèven vès Gilardelli, Valtorta e Maggiùr Màj
che del Comitaa Centrà èren staa autorizzaa.
4. Diffatti vers i desur con la banda a la tèsta
se rìva in piazza cont un codàzz de gènt tutt in festa
la piazza gremìda de gènt che aspettaven con passiùm
la parola e el moment de inaugurà la resurreziùm.
5. A un certo punto se sènt la gènt che tùt batten i màn
e diffatti el riva una bella squadra de eròi partigiàn
che lùr per i prìm sin sentii in dovèr
de armàs come tut i àlter per scaccià el stranier.
6. Al prim piàn del Caffè De Angeli e precisament al balcùm
dove dovèven parla i oratùr del Comitaa de liberazium
ei prim a parlà l’è staa el Cavalier Carlo Valtorta
che del Comitaa Centràl el sò salùt el porta.
7. In sèguit l’invidava el popol a vès tut compàt e unì
a stringes insèm tut i idèi e i partii
che soltànt a fà inscì anzi appunto perchè inscì l’è staa faa
èm stroncaa el fascismo e gh’em avù la libertaa.
8. Ogni tant interròt da applaùs e battimàn de la gent
che se trovava in piazza (circa des mila presènt)
l’ha terminaa raccomandànd che a fà inscì no se sbaglia
saraà cambiaa el sistèma de vinticinquàn passaa in Italia.
9. Dopo el ga daa la parola a Gilardelli Comunista
che per vint’àn pussee I’è staa proibi de mèttes in vista
ma che inchèu per mezzo de sta general insurreziùm
anca lù l’ha svòlt el programma del Comitaa de liberaziùm.
10. El Maggiùr Gian Maria Maj che l’era presènt anca lù al balcùm
el mèt al corrènt i compàgn d’una piccola indisposiziùm
el prega allora el Cavaliar Valtorta de parlà a nòm sò
e diffatti el Valtorta el torna a parlà ancamò.
11. Parland al popol de la situaziùm del Comùn
l’a trovaa che de pàn ghe ne pù per nissùn
in tùt a l’ammàs l’ha trovaa dù quintài de formènt
e còme se farà a dàch de mangià a tutta gent?
12. In ògni modo però l’ha raccomandaa de vèch paziènza
ch’el cercarà de contentàm tuc e nissùgn resterà senza
e allora l’ha pregaa tut i present e specialment i agricultùr
de portà amò del grán e aiutà un pù anca lùr.
13. Allora tut la gènt meravigliaa se guardàven in fàccia
a commentà tùt quel che gàn daa a l’ammàs e per l’audacia
ch’in staa obbligaa di fascisti a portà el gran per polènta
e po lùr l’an rubaa tùt e al popol gan faa tirà la zenta.
14. In ultim el Valtorta che le un òm de bùm critèri
l’ha ordinaa ch’el corteo l’andàs a trovà i mort al Cimiteri
allora la gent lapplaudì amò e con la banda a la testa
i’ha seguì el cortèo tut contènt e tùt in festa.
15. Appena rivaa al Cimiteri e che tut se mì a pòst
l’ha tegnù un piccol discùrs anch’el sciùr Prevòst
invitànd tut el popoi a la càlma e a la preghièra
che allòra se salvarèm da qualùnque bafera.
16. In ùltim el tàcca a pieùv e sot. a l’acqua el corteu l’ha continuaa
traversànd sèmper con banda in tèsta tùt i stràd de Caraa
e tutt con contentezza perchè l’è rivaa sto bel dì
e quand s’e sciòlt el cortèu el sonava già mezdì.
17. La banda che l’èra accompagnàa del so Direttùr
ch’el ga dit de trovàs amò vers i do ùr
perchè dopo se dovèva andà inscì pian pian
a Onorà el prìm de Mag anca su a Veran.
ANGELO VILLA detto Materno - portalettere