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venerdì 19 dicembre 2014

PRESIDIO CONTRO IL CONVEGNO DI FORZA NUOVA A MILANO

Per sabato 20 dicembre, a solo pochi giorni dal 45° anniversario della strage di Piazza Fontana, Forza Nuova ha organizzato a Milano, a pochi passi dalla Camera del Lavoro, un convegno sull'Europa, chiamando a raccolta i vari movimenti neofascisti e neonazisti del vecchio continente.
L'ANPI fa appello alle forze politiche democratiche, alle istituzioni, e alle autorità perché intervengano per impedire che il raduno si svolga ancora una volta a Milano, medaglia d'oro della Resistenza, città multietnica, democratica e antifascista.
L'ANPI Provinciale di Milano aderisce al presidio promosso dalla Camera del Lavoro Metropolitana, che svolgerà davanti alla Camera del Lavoro, sabato 20 dicembre a partire dalle ore 14.
Il ripetersi di questi raduni che per la loro carica antisemita, razzista e xenofoba si pongono in netto contrasto con i principi sanciti dalla Costituzione Repubblicana nata dalla Resistenza e con le leggi Scelba e Mancino suscita - sottolinea Roberto Cenati, presidente ANPI Provinciale di Milano - crescente preoccupazione tra le forze democratiche che si richiamano ai valori della nostra Carta Costituzionale.
"L'ANPI chiede alle istituzioni e alle pubbliche autorità una netta presa di posizione volta a ribadire che, soprattutto in vista del 70° anniversario della Liberazione, Milano, capitale della Resistenza, non venga invasa e oltraggiata da simboli e manifestazioni neonaziste e neofasciste che offendono la memoria dei Caduti per la Libertà." 
 

mercoledì 5 marzo 2014

CELEBRAZIONE PARTIGIANI CARATESI

 
In occasione della celebrazione dell’Anniversario della fucilazione a Pessano con Bornago dei
Partigiani Caratesi l’Amministrazione Comunale in collaborazione con il Comitato Unitario
Antifascista e per la difesa delle Istituzioni Repubblicane organizza le iniziative di cui si riporta
programma e calendario:
 
DOMENICA 9 MARZO
 
 
Ore 9.00 - Dal piazzale del Municipio partenza per Pessano dove alle ore 10.00 avrà inizio la
manifestazione.
Ore 16.00 – Inaugurazione mostra “La Donna nella Resistenza” a cura dell’ANPI c/o Villa
Cusani – La mostra rimarrà aperta fino a Domenica 16 marzo
 
DOMENICA 16 MARZO – celebrazione civile
 
 
Ore 9.30 – S. Messa in Chiesa Prepositurale
Ore 10.30 – Al “Monumento alla Resistenza” – P.zza C.Battisti Commemorazione alla
presenza delle Autorità Cittadine di Carate e Pessano e Rappresentanti dell’ANPI.
Corteo al Cimitero per deporre le corone al Sacrario e sulle tombe dei Partigiani
caduti.
Deposizione di un mazzo di fiori ad opera del Sindaco sulla tomba del partigiano
tumulato presso il Cimitero di Agliate.
– Arrivo staffetta con fiaccola da Pessano con Bornago in collaborazione con il
G.P.Marciacartesi in occasione del 40° anniversario dell’attività del Comitato Unitario
Antifascista.
 
 
 
 
 
 
 


lunedì 24 febbraio 2014

QUESTIONE ORIENTALE. IL QUADRO STORICO.




1918 1922   Dopo la vittoria arriva il fascismo
La conclusione della prima guerra mondiale con il conseguente disfacimento dell’Impero asburgico, consegnarono all’Italia la Venezia Giulia e Zara. Nel 1924 venne annessa anche la città di Fiume. Il Regno d’Italia si estese così su terre abitate sia da popolazioni di origine italiana, soprattutto nelle zone costiere, sia da sloveni e croati, in prevalenza nei paesi dell’interno.
In questa mescolanza di etnie e nel complesso intreccio di vicende storiche locali, trovò alimento un nazionalismo fascista particolarmente virulento e aggressivo. Già all’inizio del 1919 vengono costituiti forti gruppi di squadristi che – come si legge in un documento dell’epoca – «insegnarono a tutti i Fasci d’Italia il metodo più efficace di lotta contro l’Antinazione e inaugurarono per prime, come divisa ufficiale, la gloriosa Camicia nera».
 
 
Gli effetti della violenza fascista non tardarono a farsi sentire. Non solo gli antifascisti furono presi di mira, come avvenne in quegli anni nel resto d’Italia, ma le squadracce fasciste si accanirono soprattutto contro la popolazione di etnia slovena e croata. Gli squadristi, capeggiati da Francesco Giunta, incendiarono a Trieste il 13 luglio 1920 l’hotel Balkan, sede del “Narodni Dom”, il più importante e moderno centro culturale delle organizzazioni slovene in città.
Questo gravissimo episodio verrà definito da Mussolini «il provvidenziale incendio del Balkan». Dopo questo autorevole avallo, la violenza fascista dilaga con l’obiettivo della completa italianizzazione delle popolazioni di etnia non italiana che abitavano quelle terre da tempo immemorabile. 
 
Così racconta un testimone di allora, lo scrittore Boris Pahor, nel libro “Necropoli”:
“Già in gioventù ogni illusione ci era stata spazzata via dalla coscienza a colpi di manganello e ci eravamo gradualmente abituati all' attesa di un male sempre più radicale, più apocalittico. Al bambino a cui era capitato in sorte di partecipare all' angoscia della propria comunità che veniva rinnegata e che assisteva passivamente alle fiamme che nel 1920 distruggevano il suo teatro nel centro di Trieste, a quel bambino era stata per sempre compromessa ogni immagine di futuro. Il cielo color sangue sopra il porto, i fascisti che, dopo aver cosparso di benzina quelle mura aristocratiche, danzavano come selvaggi attorno al grande rogo: tutto ciò si era impresso nel suo animo infantile, traumatizzandolo. E quello era stato soltanto l'inizio, perché in seguito il ragazzo si ritrovò a essere considerato colpevole, senza sapere contro chi o che cosa avesse peccato. Non poteva capire che lo si condannasse per l'uso della lingua attraverso cui aveva imparato ad amare i genitori e cominciato a conoscere il mondo. Tutto divenne ancora più mostruoso quando a decine di migliaia di persone furono cambiati il cognome e il nome, e non soltanto ai vivi ma anche agli abitanti dei cimiteri.”

1922 1940  Proibita anche la messa in sloveno
         
Su un intreccio perverso di antislavismo e antisocialismo si incardina la politica del fascismo negli anni successivi alla presa del potere. «Di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone», si legge in un proclama diffuso dal fascismo in quegli anni.
Gli abitanti di etnia slovena e croata, definiti “allogeni” (termine neutro dal punto di vista scientifico, ma caricato in quegli anni da un forte senso di estraneità, di disprezzo e di inferiorità), sono sottoposti a una serie inaudita di angherie: si chiudono i circoli culturali sopravvissuti alle devastazioni squadristiche , si obbligano le popolazioni alla italianizzazione dei loro cognomi, altrettanto avviene per i nomi slavi dei paesi, e soprattutto si impone l’obbligo della lingua italiana
in qualsiasi luogo pubblico (ne soffriranno soprattutto i bambini a scuola, costretti a studiare in una lingua che non conoscono affatto).
Si arriva a proibire l’uso della lingua persino in chiesa, durante le funzioni religiose.
Il clero cerca di resistere, ma inutilmente.
Nel 1928 il vescovo Fogar così si rivolgeva al clero e ai fedeli commentando le decisioni del governo italiano che colpivano anche la Chiesa: «Cosa possiamo fare noi sacerdoti, combattuti tante volte da quelli stessi che dicono di credere in Gesù Cristo?
Dove l’empietà comincia a trionfare, ivi non tarderà a scatenarsi la persecuzione».
 
Il 6 aprile 1941 cinquantasei divisioni tedesche, italiane, ungheresi e bulgare attaccano da ogni parte il Regno di Jugoslavia. La debole resistenza del paese aggredito viene subito sopraffatta. Lo stato crolla, l’esercito si scioglie e la Jugoslavia viene smembrata.La Slovenia settentrionale è assegnata alla Germania nazista, quella meridionale viene annessa all’Italia con la denominazione “Provincia di Lubiana”. L’Italia ingrandisce, a spese della Croazia, la provincia di Fiume e quella di Zara annettendosi anche la parte centrale della Dalmazia. La Croazia viene dichiarata formalmente uno stato indipendente: si insedia al governo il capo degli ustascia  Ante Pavelic, un criminale di ideologia nazifascista, mentre Aimone di Savoia viene designato re con il nome di Tomislavo II. Il regime di occupazione della Jugoslavia da parte della Germania e dei suoi alleati fu spietato. Migliaia di persone vennero uccise e centinaia di villaggi incendiati. La resistenza all’occupazione si sviluppò sin dall’estate 1941, cominciando dal Montenegro ed estendendosi ben presto a Serbia, Croazia e Slovenia.
Nell’ottobre del ’41 si ebbero le prime condanne a morte. Nei 29 mesi di occupazione italiana nella sola provincia di Lubiana vennero fucilati circa 5.000 civili e altre 7.000 persone, in gran parte anziani, donne e bambini, trovarono la morte nei campi di concentramento italiani. Tristemente noti sono quelli di Gonars (Udine) e Rab in Croazia.
1943  L’occupazione tedesca
L’annessione di fatto al Terzo Reich dei territori del confine orientale sottratti alla sovranità italiana è la prima reazione da parte nazista alla dissoluzione dell’esercito italiano dopo la caduta del fascismo del 25 luglio e l’armistizio dell’8 settembre 1943.
La perdita di controllo dei territori entro i confini dello Stato italiano e anche di quelli sottoposti a occupazione militare, risultato del collasso politico-militare del regime fascista, offre alla Wehrmacht la possibilità di occupare rapidamente l’area della Venezia Giulia, della provincia di Lubiana e del territorio dalmata.
 

Dal settembre del 1943 all’aprile del 1945 le province di Trieste, Gorizia, Udine, Pola, Fiume e Lubiana furono riunite nella speciale zona di operazione definita Adriatisches Küstenland (litorale adriatico) che venne inclusa nelle strutture amministrative della Germania nazista. Analoga sorte subì la zona comprendente le province di Trento, Bolzano e Belluno.
L’Adriatisches Küstenland sopravvivrà per più di venti mesi. La Repubblica di Salò nasce come struttura amministrativa di collaborazione voluta dai tedeschi. Queste mutilazioni regionali la screditarono ulteriormente. L’Italia è privata brutalmente della sovranità su un’area in cui aveva profuso l’ambizione nazionalistica di una grande espansione nei Balcani e del controllo totale dell’Adriatico. Il Gauleiter Rainer, incaricato da Hitler per le soluzioni amministrative e di gestione, impone condizioni durissime alle popolazioni con l’obiettivo finale di abbattere ogni resistenza e di annettere in via definitiva questi territori al Grande Reich. Le violenze e gli eccidi che vengono perpetrati nell’Adriatisches Küstenland, con la complicità delle “bande nere” di Salò, aggravano ulteriormente le tensioni nazionali nell’area giuliana, che nel dopoguerra conosceranno una nuova stagione di violenze di massa, questa volta a danno degli italiani.
 
1943 1945  La Resistenza e la Risiera
La Resistenza ha inizio in Istria sin dagli anni successivi alla presa fascista del potere. Sono del 1929 le condanne del Tribunale Speciale, insediato per l’occasione a Pola, di 5 antifascisti croati: uno fu condannato a morte e gli altri a trent’anni di reclusione. L’anno successivo il Tribunale Speciale riunito a Trieste condannò a morte 4 sloveni imputati di cospirazione contro l’Italia.
Con l’occupazione nazista della Venezia Giulia (Adriatisches Küstenland) tra il 1943 e il 1945, i tedeschi cercano di accattivarsi le simpatie della popolazione locale recuperando i miti asburgici.
Ma il volto del nazismo aveva ben altre sembianze.
Nell’estate-autunno 1941 iniziò in Jugoslavia la Resistenza contro l’occupazione italo-tedesca. A seguito dell’annessione della Slovenia all’Italia, lo Stato fascista si trovò con la guerriglia in casa. Venne istituito un tribunale straordinario e introdotta la pena di morte non solo per coloro che fossero stati sorpresi armati, ma anche per chi avesse posseduto materiale di propaganda o partecipato a riunioni  o assembramenti giudicati di carattere eversivo.
Anche per questo nella Venezia Giulia la Resistenza ebbe inizio con netto anticipo rispetto al resto d’Italia.
Infatti già nei primi mesi del 1943 la guerriglia partigiana, sempre più estesa in Jugoslavia, travalicò il vecchio confine e cominciò a lambire la stessa città di Trieste. Alla data dell’8 settembre il Movimento di liberazione jugoslavo era già presente nella regione ed era in grado di proporsi come contropotere rispetto al regime instaurato dalle forze nazifasciste.

 
Parallelamente si sviluppò l’organizzazione della Resistenza da parte italiana. A Udine, tra il febbraio e l’aprile del 1945, avvenne la fucilazione di 52 partigiani. Questi eccidi vennero compiuti dai nazisti con la collaborazione attiva dei fascisti di Salò. L’asprezza del contrasto tra partigiani italiani e le mire espansionistiche jugoslave, portò a uno dei più tragici episodi della Resistenza: nel febbraio del 1945 nelle malghe di Porzus, nel Friuli orientale, un gruppo di fanatici garibaldini massacrò, cogliendolo di sorpresa, l’intero comando della Brigata Osoppo, composta in prevalenza da partigiani che si riconoscevano nel movimento “Giustizia e Libertà”, accusato ingiustamente di tradimento. Forti furono anche i contrasti tra il CNL triestino che tendeva a marcare la propria italianità e la resistenza slovena che si batteva per l’annessione della Venezia Giulia alla Jugoslavia.
Il Polizeihaftlager (campo di detenzione di polizia), della Risiera di San Sabba, destinato a detenuti politici ed ebrei è l’unico campo di concentramento nell’intera area dell’Europa occidentale provvisto di forno crematorio. È il luogo dal quale si conduce contro la popolazione civile, sospettata di appoggiare il Movimento di liberazione, una vera e propria campagna di deportazione, di violenze e di uccisioni. La Risiera fu innanzitutto una istituzione dedicata all’attività di cattura e deportazione degli ebrei e di tutti gli oppositori sia italiani che slavi. Qui si applicarono le tecniche di uccisione di massa, proprie della logica SS: abbattimento, gassazione, fucilazione, strangolamento; l’invio di deportati nei campi di sterminio in Germania. Nella Risiera furono deportate circa 20.000 persone, di cui, secondo calcoli approssimati ben 5.000 persero la vita. Oggi l’edificio della Risiera è monumento nazionale. Fascismo
Infatti già nei primi mesi del 1943 la guerriglia partigiana, sempre più estesa in Jugoslavia, travalicò il vecchio confine e cominciò a lambire la stessa città di Trieste. Alla data dell’8 settembre il Movimento di liberazione jugoslavo era già presente nella regione ed era in grado di proporsi come contropotere rispetto al regime instaurato dalle forze nazifasciste.
 
1943 1945  L’orrore delle foibe
Quando si parla di "foibe" ci si riferisce alla violenza di massa nei confronti di militari e di civili, in prevalenza italiani, in diverse zone della Venezia Giulia. La prima ondata di violenze si ebbe dopo l'8 settembre 1943 in Istria contro cittadini italiani. Nel maggio 1945 con l'occupazione della Venezia Giulia da parte dell'esercito jugoslavo, la violenza riprese con maggior vigore. Ne furono vittime migliaia di persone civili e militari. Tra di esse vi erano anche esponenti antifascisti che si opponevano al passaggio di queste terre alla Jugoslavia.
Almeno 5.000 persone scomparvero nelle stragi chiamate “foibe”, dal nome delle voragini tipiche dei terreni carsici in cui spesso venivano gettati i cadaveri, anche se non tutte trovarono la morte in tale modo.
1943 1945  Obiettivo: i “nemici del popolo”
Nel maggio del 1945 le truppe jugoslave, partigiani del 9° corpo d'armata e unità regolari della 4a armata, occuparono tutto il territorio della Venezia Giulia e, come un esercito vittorioso, procedettero all'internamento di tutti i militari e di tutti gli appartenenti alle forze di polizia catturate e dei cittadini ritenuti ostili all'annessione del territorio alla Jugoslavia.
Il trattamento inflitto ai prigionieri fu durissimo. Molti perirono di stenti o furono liquidati nei campi di concentramento, come nel famigerato campo di Borovnica.
Molti perirono durante marce di trasferimento che divennero marce della morte. Centinaia furono le esecuzioni sommarie, decise senza l'accertamento di effettive responsabilità personali in atti criminosi.
Fra gli uccisi vi erano anche i responsabili di violenze, protagonisti di rappresaglie e sevizie, spie, sloveni e croati, aguzzini del famigerato ispettorato speciale di polizia di sicurezza per la Venezia Giulia. Il criterio degli arresti e delle esecuzioni si fondava su una ipotetica responsabilità collettiva e a essere travolti dalla repressione furono in maggior misura i quadri intermedi che non i vertici delle strutture politiche o militari della occupazione nazista. In questa logica rientra anche la deportazione delle guardie di finanza, che pure non avevano partecipato ad azioni antipartigiane e di molti membri della guardia civica di Trieste, che era stata dipendente dai comandi tedeschi, ma che non era stata impiegata in attività repressive. Persino alcuni membri delle brigate partigiane italiane, dipendenti dal Comitato di liberazione nazionale di Trieste, furono considerati alla stregua dei militari germanici e della repubblica sociale.
L'esercito jugoslavo non risparmiò le strutture politiche e le forze militari facenti capo al Comitato di liberazione nazionale italiano, solo perché non erano disponibili ad accettare la subordinazione al movimento di liberazione jugoslavo ed erano impegnati a cercare, mediante l'insurrezione armata, una autonoma legittimazione antifascista agli occhi della popolazione e degli angloamericani. L’obiettivo principale dei massacri fu quindi l’eliminazione dei “nemici del popolo”, cioè di chiunque si opponesse all’annessione della Venezia Giulia e dell’Istria alla Jugoslavia e alla costruzione di un regime comunista.
 
1946 1956  L’esodo dei 250.000
Alla fine della guerra la Jugoslavia rivendicò nei confronti dell’Italia una consistente espansione territoriale, che comprendeva anche la città di Trieste. In attesa della definizione di questo contrasto, il territorio giuliano venne diviso in due parti: la Zona A, comprendente Trieste, sottoposta ad un governo militare anglo-americano, e la Zona B, governata dall’autorità militare jugoslava. Soltanto nel 1954 la Zona A passò definitivamente all’Italia, mentre la Zona B rimase alla Jugoslavia. Con il 1956, data convenzionale della fine dell’esodo, il 90% della comunità italiana di Fiume e dell’Istria aveva dovuto abbandonare la propria terra.
Negli anni 1946-1956 si compì il tragico esodo degli italiani dalle loro terre. La quasi totalità degli italiani che vivevano nei territori passati sotto il definitivo controllo della Jugoslavia, fu costretta ad abbandonare i paesi nei quali vivevano da molte generazioni. Un’intera comunità nazionale, calcolata sulle 250.000 persone, si disperse nel mondo. Solo una parte degli esuli trovò ospitalità in Italia, mentre gli altri furono costretti a emigrare soprattutto nelle Americhe, in Australia o in Nuova Zelanda.
Lasciarono una terra sconvolta: borghi, soprattutto quelli costieri, ridotti a città fantasma, gravemente spopolate anche le campagne, completamente disarticolata la società locale con la scomparsa di interi ceti sociali (possidenti e artigiani), spezzati i legami con aree tradizionalmente unite da una fitta rete di legami, come Trieste e l’Istria. 
 
La prima città a svuotarsi fu Zara, abbandonata da larga parte della popolazione in seguito ai bombardamenti anglo-americani del 1944, che recarono gravissime distruzioni alla città dalmata.
Subito dopo la fine della guerra iniziò a svuotarsi Fiume, stabilmente occupata dagli jugoslavi fin dalla primavera del 1945.
Il governo di Tito avviò nei confronti degli italiani una politica assai dura, fatta di espropri mirati a colpire le posizioni economiche della piccola e media borghesia, di arresti e uccisioni, con lo scopo di eliminare qualsiasi embrione di dissenso politico. Gli esodi di massa si intensificarono dopo il 1946, con la firma del trattato di pace, che sancì il passaggio dell’Istria e della Dalmazia alla Jugoslavia.
Simile a Fiume fu la situazione di Pola, dopo che le truppe anglo-americane lasciarono la città. Uguale fu il comportamento degli italiani residenti in altri territori dell’Istria, il cui esodo fu diluito nel tempo.
 
1946 1956  L’amara accoglienza
Il rancore e l’odio accumulati da sloveni e croati per la criminale oppressione fascista spiega solo in parte l’asprezza dei comportamenti degli jugoslavi nei confronti della popolazione italiana, che veniva identificata in blocco come nemico storico del nazionalismo sloveno e croato.
Per le decine di migliaia di profughi che trovarono rifugio in Italia la vita fu all’inizio estremamente dura. Il governo italiano era del tutto impreparato ad accogliere una massa così imponente di profughi e una vera e propria politica di accoglienza venne approntata purtroppo con gravi ritardi. 
 

Inoltre nel 1948 la condanna di Stalin contro Tito aveva modificato la posizione della Jugoslavia nello scacchiere internazionale, con la conseguenza di azzerare i toni della denuncia contro il governo di Belgrado anche in riferimento alle condizioni dei 250.000 profughi. I campi di assistenza allestiti in diverse parti d’Italia (nel Bergamasco, in Toscana, in Sardegna e nel Meridione) erano privi di tutto.
Ecco come un profugo descrive la vita in uno di questi campi: «Questo infame campo era situato in una vallata a fianco del fiume Arno e noi dovevamo accontentarci di vivere in casematte usate dai prigionieri di guerra con una coperta militare e un sacco di paglia. Il cibo era razionato e gli abitanti della zona ci trattavano peggio dei delinquenti».
Altrettanto dure furono, almeno nei primi tempi le condizioni di vita di coloro che furono costretti ad emigrare in paesi lontani. Quella dei 250.000 italiani costretti a lasciare le terre passate sotto il controllo del governo jugoslavo è una tragedia troppo spesso ignorata, provocata dalla guerra e dall’esplodere di un nazionalismo che anche in tempi più recenti ha causato distruzioni, sofferenze e morte nelle popolazioni che hanno avuto la sventura di esserne coinvolte.
 

 
Riceviamo e pubblichiamo il contributo di Maurizio Boerci a seguito dell'iniziativa svoltasi lo scorso 8 febbraio in concomitanza all'esposizione della mostra "Fascismo,foibe, esodo".

 
Conosciamo da tempo il lato tragico della vicenda delle Foibe triestine ed istriane, profonde fenditure nella roccia carsica in cui furono gettate, perlopiù vive, alcune centinaia di persone tra il 1943 ed il 1945 , che avevano la colpa di essere italiani, ex-fascisti, ma spesso proprietari terrieri, commercianti, artigiani ed i loro inermi familiari. La giornata del ricordo, che si celebra da alcuni anni il 10 febbraio, serve proprio a tenere vivo il ricordo di questa tragedia.

Meno approfondito è l’aspetto degli antefatti storici, allo studio dei quali si dedica da anni il prof. Marco Cuzzi, docente di Storia Contemporanea all’Università degli Studi di Milano, che ne ha parlato durante un incontro tenutosi a Carate Brianza presso il Circolo Aliverti.

Secondo il prof. Cuzzi il punto di vista italiano verso quei territori nel corso di tutto l’800 è stato influenzato dal ritenere che la Repubblica di Venezia, la Serenissima, costituisse in modo uniforme un’area linguisticamente e socialmente italiana, tolta proditoriamente all’Italia da Napoleone con il trattato di Campoformio e restituita solo in parte dalle Guerre d’Indipendenza. In realtà, secondo Cuzzi, la Repubblica di Venezia era piuttosto quello che oggi definiamo un “melting pot”, uno stato multietnico, dove la metà dei Dogi era originaria dell’altra sponda dell’Adriatico.

Parallelamente l’Impero Austro-ungarico dalla seconda metà dell’Ottocento, al fine di contrastare le ambizioni d’indipendenza dei triestini, istriani e dalmati, aveva facilitato il trasferimento in quelle terre di croati, sloveni e perfino boemi ed ungheresi, aumentandone la presenza proprio al fine di smorzare le tendenze separatiste. Si arriva così alla Prima Guerra Mondiale, al termine della quale il noto giornalista Luigi Barzini, entrando in una Trieste liberata, può accorgersi con sorpresa che “almeno il 40% dei triestini non è italiano”.

Il Fascismo persegue da subito una politica  di italianizzazione forzata, impedendo anche  che si parlino altre lingue o dialetti in luoghi pubblici o nei bar. Si arriva al 1941, quando l’esercito italiano occupa direttamente quella che viene nominata “Provincia di Lubiana” e pone il protettorato sulla Croazia, nominando Re un membro della Casa Savoia che rifiuta di recarsi a Zagabria per insediarsi sul trono. Nei territori sloveni e croati si aprono campi di concentramento in cui si muori per fame e maltrattamenti, il più noto dei quali sull’isola di Arbe. Il generale Robotti scrive di suo pugno in un  comunicato agli ufficiali “..qui non si ammazza abbastanza…”.
La rabbia accumulata negli anni dalle minoranze “slave” esplode con violenza inaudita dopo l’8 Settembre 1943, quando l’esercito italiano si sfalda in un attimo; in Istria vengono infoibate almeno 700-800 persone in pochi giorni, anche antifascisti che rifiutano di assecondare il passaggio dell’Istria e di Trieste alla rinascente Jugoslavia. Nel Maggio 1945 Tito occupa tutta la zona e mira a conquistare parte del Veneto, lasciando alle spalle una scia di sangue e di fanatismo anti-italiano.

Comincia così il grande esodo, che nell’arco di un decennio ha portato verso l’Italia circa 350.000 profughi, alcuni dei quali sono poi emigrati oltreoceano. Si creano decine di campi di raccolta, si mobilita la solidarietà pur a fronte di un’opinione pubblica italiana spesso contraria, che ritiene nient’altro che fascisti tutti coloro che fuggono dalla Jugoslavia.

Anche Monza fa la sua parte in positivo: per circa un decennio la Villa Reale ospita fino a 60 nuclei familiari di sfollati, pur in condizioni di precarietà. Proprio ad alcuni dei superstiti monzesi del grande esodo è dedicato un libro, scritto da Umberto De Pace. Alcune testimonianze toccanti sono state lette durante l’incontro.

Maurizio Boerci
 
 
 
 
 
 

martedì 14 gennaio 2014

GIORNO DELLA MEMORIA

 
 
La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell'abbattimento dei cancelli di Auschwitz, "Giorno della Memoria", al fine di ricordare la Shoah (sterminio del popolo ebraico), le leggi razziali, la persecuzione italiana dei cittadini ebrei, gli italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte, nonché coloro che, anche in campi e schieramenti diversi, si sono opposti al progetto di sterminio, ed a rischio della propria vita hanno salvato altre vite e protetto i perseguitati.
L'Associazione Nazionale Partigiani d'Italia con il Patrocinio del comune di Carate Brianza presenterà la mostra "Oltre quel muro - La Resistenza nel campo di Bolzano 1944-45". Si tratta di una mostra documentaria realizzata da Dario Venegoni e Leonardo Visco Gilardi per conto della Fondazione Memoria della Deportazione. La mostra è stata presentata per la prima volta presso il Teatro Cristallo di Bolzano sotto l'Alto Patronato del Capo dello Stato, Giorgio Napolitano.
In 26 pannelli vengono presentati per la prima volta decine e decine di documenti inediti che testimoniano di un'incessante attività clandestina che coinvolse centinaia di persone dentro e fuori il Lager di via Resia, in aperta sfida alle SS. Si tratta di fotografie, lettere e documenti reperiti in diversi archivi italiani e tra le carte personali dei familiari di molti ex deportati nel Lager.
Nel lager di Bolzano vennero internati numerosi cittadini brianzoli fra cui alcuni caratesi.
Sabato 25 gennaio alle ore 15.30 la mostra verrà presentata dall'autore Leonardo Visco Gilardi, figlio di un deportato nel lager nazista di Bolzano.
La mostra sarà esposta presso i locali del centro Pierino Aliverti nei giorni e orari riportati sul volantino.
 
Inviatiamo la cittadinanza e le realtà scolastiche del territorio a partecipare.